Per chi ama Franco Battiato c’è un concerto che è pura mitologia: 11 settembre 1982, Arena di Verona, l’apertura con Summer On a Solitary Beach, la chiusura con Areknames e un bis in cui viene eseguito da cima a fondo La voce del padrone, il disco del 1981 che ha fatto la fortuna e la storia dell’artista siciliano, traghettandolo dalle retrovie della nicchia ai grandi palchi del pop e del riconoscimento commerciale, il disco da oltre un milione di copie vendute che sbriciola i confini tra l’alto e il basso, si infila nelle case di quasi ogni famiglia italiana, si consuma nei juke box e nelle discoteche del pomeriggio, diventa disco generazionale per poi fare a pezzi proprio le barriere generazionali, uscendo dal tempo e costringendo i genitori a portare all’Arena un sacco di ragazzini completamente impazziti per quelle melodie e quelle parole tanto incomprensibili ai più quanto seducenti per tutti.
Per ieri sera, giorno del quarantesimo anniversario dall’uscita sul mercato de La voce del padrone, un quartetto di direttori artistici (e addetti alla cultura) nelle grazie di Franco Battiato e dello spettacolo italiano da tempo immemore avevano immaginato un grande live a mille voci e teste per celebrare la ricorrenza, l’idea di un evento che, dopo la morte dell’artista, si è lentamente trasformata nel progetto di un concerto-omaggio, una commemorazione collettiva col pubblico, registrata per essere mandata in onda su Rai 3 nel prossimo mese di dicembre e per trasformarsi in un doppio album in un giorno ancora imprecisato del 2022.
Sotto la luna piena, in quello che qui da noi è l’ultimo giorno d’estate ma il primo di primavera nell’emisfero australe, in un clima che abbiamo immaginato (o sperato) vicino a quello di quell’11 settembre dell’82, si sono dunque dati il cambio una quarantina di nomi della scena italiana contemporanea più e meno recente, alcuni tra quelli che hanno popolato o popolano le hit parade nostrane e altri meno noti al grande pubblico ma significativi quando non cruciali per la storia culturale e musicale della nazione, nomi che hanno intrattenuto, in modi e formule diversi, relazioni artistiche con Franco Battiato.
Il co-direttore artistico Francesco Cattini, al lavoro come musicista, produttore e poi manager di Franco Battiato dall’inizio dei ’90 fino all’ultimo giorno, ha architettato e messo in piedi questo spettacolo al fianco di Stefano Senardi, Pino ‘Pinaxa’ Pischetola e Carlo Guaitoli, nel tentativo di trovare un modo per celebrare Battiato nello spirito di Battiato: «All’inizio, verso febbraio o marzo, avevamo firmato con l’Arena per questo concerto per i 40 anni della Voce del padrone, poi Franco è mancato e abbiamo pensato di trasformare tutto in un grande live per lui. Abbiamo discusso molto, alcuni tra noi sostenevano fosse troppo presto, stavamo lavorando con mesi d’anticipo, ma avevamo appena perso Franco ed era un momento particolare, un momento difficile per prendere certe decisioni».
Ieri sera a dare voce alla grande lezione di Battiato sono stati tanti: Alice, naturalmente, “la vedova Battiato”, a cui, così come a Juri Camisasca, è stato lasciato grande spazio al centro delle lunghe quattro ore e mezza di live, il commovente Roberto Cacciapaglia nell’Oceano di silenzio, un Gianni Morandi di smisurata bravura e professionalità che fa tremare la platea con l’interpretazione di Che cosa resterà di me (Mesopotamia), scritta per lui da Battiato per l’album con Lucio Dalla Dalla/Morandi (1988), o ancora Angelo Branduardi maestoso, compito, tanto rigoroso quanto non austero e invece intenerito nell’esecuzione calda de Il re del mondo. E poi Colapesce e Dimartino con Bandiera bianca e, assai meglio, con Sentimiento nuevo, le premiate ditte Extraliscio prima e Capossela poi – con look mezzo Battiato mezzo energy dome dei Devo – a fare danze prima (Voglio vederti danzare) e ragionar danzando poi (La torre), si va da Paola Turci che commossa insegna come si interpreta divinamente il brano più (mal) interpretato di Franco Battiato, Povera patria – ché sta tutto in come si pronuncia quel “me ne vergogno un poco e mi fa male”, lei lo sa benissimo – fino a Carmen Consoli, un poco maestra di cerimonia, silente, soave e quasi austera in abito bianco con la sua Tutto l’universo obbedisce all’amore tra un Diodato, impeccabile come ormai sempre accade, una Gianna Nannini con – uhm – coriste in Cuccuruccuccu versione energy drink, il Max Gazzè di Un’altra vita e il Mahmood di No Time No Space che quasi faticano a prendersi la nota, sarà per l’emozione, sarà per la vocalità difficile e unica – in senso definitorio prima che qualitativo – nelle originali di Franco Battiato.
C’è chi è a casa propria dopo molto tempo a vagabondare, come Morgan, da solo in Come un cammello in una grondaia o con l’amico di vecchia data Fabio Cinti (autore ed esecutore di una versione integralmente rieseguita de La voce del padrone che gli valse una Targa Tenco alla miglior interpretazione nel 2018) in Segnali di vita.
«Abbiamo cominciato a scegliere gli artisti, chiamarli, assegnare i pezzi da eseguire», mi racconta Cattini. «La stragrande maggioranza di loro erano nomi che avevano avuto a che fare con lui, Max Gazzè per esempio non lo sanno in molti ma apriva i concerti del tour dell’Ombrello e la macchina da cucire nel 1995, ma abbiamo deciso di aprire le porte anche ad artisti verso i quali Battiato aveva simpatia, che aveva conosciuto, con i quali insomma c’era comunque stata una forma di condivisione nonostante facessero parte di universi musicali diversi».
In effetti, va detto, questa apertura del party a una lista ben lontana dall’essere esclusiva in alcuni momenti si fa sentire, fa pensare, ragionare di quello che si sta ascoltando e questo al netto di una lunga serie di problemi tecnici che hanno afflitto, loro malgrado, diverse altrimenti buone esibizioni (la voce di Francesco Bianconi che sembra essere stato lasciato a microfono spento per mezzo brano quando i Baustelle eseguono I treni di Tozeur o le spie spente dei Bluvertigo che, sul palco insieme dopo un lustro o poco meno, devono ripetere Shock in My Town una seconda volta). Insomma, non si può negare che qualche cosa lì sopra non tornasse del tutto: non un problema tecnico – che è sempre parte del grande gioco del palco – ma forse, in qualche misura, ideologico, qualcosa stonava e non nel canto ma, piuttosto, in un certo rigore estetico della serata, e questo, naturalmente, vista la figura omaggiata, celebrata, raccontata: le note intonate di Emma Marrone non bastano a offrirci una buona versione de L’animale che ne esce ferito se non sanguinante, in un’esecuzione un po’ da contenitore pomeridiano, un po’ da compito in classe che sembra perdere la sua ragion d’essere nella mancanza di adesione dell’interpretazione al testo (l’esatto opposto rispetto a Turci o Consoli, per intenderci), e poi Cristina Scabbia e Davide Ferrario che, con buona pace di Saturnino che con Jovanotti e L’era del cinghiale bianco ci fa almeno ballicchiare e pure senza dispiacerci, sembrano sottolineare e non a loro favore che no, su quel palco, col nome e in nome di Franco Battiato, non ci puoi mettere proprio chiunque.
Perché diciamolo, va benissimo la festa, e va benissimo la catarsi, l’atto collettivo di cantare a chi si ama, chi si ama, però nel grande incontro dell’alto e del basso, nel grande onore alle splendide magie del popolare e pure, se vogliamo, del nazional popolare, Battiato era espressione di accuratezza, del grande dono raro della pertinenza, di un’inclusività che non sbagliava un colpo, neanche uno, un’inclusività ben lontana dalla convinzione secondo cui chiunque potesse fare qualunque cosa.
Il basso di Battiato era alto per il mondo fuori da Battiato e questo non si può e non si deve dimenticare, perché la traccia che Franco Battiato ha lasciato non finisca nella pentola a pressione di omaggini e omaggetti, di cori e coretti e, quel che è peggio, dell’italianissima equazione del «lo amo, quindi lo canto». A volte, viene trasversalmente da pensare, sarebbe bello anche che chi ama mettesse un po’ di silenzio, perché, come Cacciapaglia sembrava sottolineare ieri sera chiedendone un poco al posto dell’applauso dopo la sua esibizione, il silenzio è moneta di valore, è il risuonare forte di rispetto. In questo senso c’è un’altra cosa che, salvo in sparuti momenti, ha funzionato poco in quella di ieri sera che, ne sono conscia, era un’impresa di proporzioni titaniche: porre eccessiva enfasi sull’elemento solenne anziché su quello giocoso, cercare di far infilare al presentatore Broccoli – inseritosi nello spettacolo in quattro momenti distinti per accompagnare, ne sono conscia anche qui, i lunghi cambi di palco – strade perdute in partenza: tirare in ballo malamente i mistici, Rumi e Gurdjieff, Decimo Magno Ausonio e chi più ne ha più ne metta salvo poi intervallare questi nomi con citazioni elencative o tentativi di omaggiare i grandi assenti con uscite del tipo «Grande Milva! Grande Giusto Pio! Grande Giuni Russo!», cose in cui poi, nel risultato finale, è impossibile non vedere banalizzazione e retorica.
La tendenza a porre l’accento sulle letture e sul sapere di Franco Battiato è rischiosissima se non si gioca nello stesso campionato – ed è chiaro, pochi stanno in quel campo – il rischio di svilire è troppo grande, il prezzo troppo alto ed è pure un peccato che in questo modo si vada anche a perdere tutto lo strato ironico e pure autoironico presente non solo in certe sue canzoni ma in tanta attitudine di quest’artista, uno che sì, è vero, “i filosofi, i mistici, il sufismo”, ma faceva ridere e rideva moltissimo, giocava, sfotteva, appassionava.
Allora, con nel cuore tante belle esibizioni e la consapevolezza del lavoro gigantesco dietro uno spettacolo come questo – quello che hanno fatto, in primis, per la musica, l’orchestra della Filarmonica dell’Opera Italiana Bartoletti diretta da Carlo Guaitoli, nonché i musicisti dell’ultimo tour di Battiato (Osvaldo Di Dio, Antonello D’Urso, Andrea Torresani e Giordano Colombo e l’ormai epico Angelo Privitera) – dico che ieri sera non è stato sempre facile, il flow è mancato in diversi momenti e con lui quell’appassionare, quel coinvolgere e coinvolgersi complicatissimo da creare e crearsi in esibizioni di tre minuti scarsi l’una: il gioco, appunto, alto, divertito, quello che con tutte le limitazioni tecniche presenti pure nelle rese dei capolavori quando ancora era l’82, io trovo nei corpi e nei volti e negli sguardi in quel live all’Arena di quell’11 settembre di tanti anni fa e ho ritrovato sempre fuori dal video, nella realtà, ognuna delle molte volte che ho avuto la fortuna di ascoltare e osservare Franco Battiato su un palco che fosse immobile o in piedi a ballare, seduto su un tappeto a gambe incrociate o su una panca a dire che il tè che gli avevano dato da bere faceva schifo. Un’atmosfera, un’aria, una vitalità obliqua, profonda ma mai inutilmente seriosa, qualcosa che ieri sera ho visto a grappoli forse troppo piccoli, proprio piccolissimi sotto la grandissima luna.