Quando irruppero sulla scena mondiale alla fine degli anni ’80, i Guns N’ Roses riuscirono ad incarnare, forse senza nemmeno rendersene conto pienamente, tanto l’edonismo che aveva caratterizzato parte di quel decennio, tanto la decadenza che quello stesso edonismo si portava dietro. Traghettando di fatto quel mix di sfacciataggine e dolore fino ai confini di Seattle.
Se è sempre stato facile accostare la band di Axl Rose e soci a quell’immaginario da Sunset Strip fatto di whisky, ragazze scosciate, nessuna paura della morte e nessun dubbio esistenziale, si è sempre fatta più fatica a vederli come qualcosa di meno frivolo, di più disturbante e introspettivo in qualche modo. Perché i Guns, oggi come allora, restano ancora un grosso malinteso nella storia del rock, che ha voluto relegarli in modo sbrigativo nel girone dei cazzoni americani da party senza fine, quando in realtà sono stati capaci più di altri di unire due mondi apparentemente agli antipodi: quello di Kurt Cobain e quello di Nikki Sixx.
Ai tempi, probabilmente, era più difficile contestualizzare qualcosa del genere: provare ad accostare una band come i Guns a quelle del Seattle Sound suonava come la peggiore delle bestemmie, ma oggi le cose appaiono decisamente più semplici. Basta semplicemente ascoltare senza pregiudizi per rendersi conto del fatto che ad unire quei due mondi fosse proprio quel sottofondo di nichilismo e disperazione sotteso a tanti brani dei Gunners.
Detto ciò, è un gruppo in ottima forma quello che si presenta alle 20:43 sul palco del Circo Massimo. I dubbi maggiori, va da sé, riguardano come sempre la voce di Axl: molti video su YouTube hanno creato qualche ansia tra fan e addetti ai lavori, soprattutto tra i meno avvezzi a un concerto dei Guns. Quello che questi non hanno ancora capito è che Axl non si può discutere, si può solo amare: puoi vederlo la sera prima e sembrare completamente finito e poi un paio di giorni dopo toccare le vette del ‘92. Peraltro, era così anche ai tempi d’oro, se ti capitava la serata sbagliata potevi aspettarlo per ore e sentirlo in condizioni terrificanti. La vera differenza oggi sta nel fatto che da un po’ di anni Axl stia bene, in primis dal punto di vista psicologico e la cosa è evidente fin da principio. È asciutto, tonico ed è subito chiaro che la location lo esalti.
Da parte loro Slash e Duff sembrano i fratelli in salute di quelli di un tempo: il primo fermo nel tempo come da iconografia classica, ma con bicipiti da bodybuilder, mentre il secondo mostra un fisico da trentacinquenne che forse ha dormito poco la sera precedente. Anche grazie a questo stato di forma, la band può permettersi scalette monstre come quelle degli ultimi anni, sempre superiori alle due ore e mezza, con punte oltre le tre ore come quello di Roma.
Che si tratti di una serata di quelle “buone” lo si capisce presto: Axl balla tutto il tempo come ai tempi belli, osa tanto e si prende fin da subito qualche rischio che potrebbe metterne a rischio la voce, ma che di contro gli fa conquistare subito l’amore incondizionato di tutti. È solo quando si ferma e si piega un po’ in avanti col quel sorriso beffardo nella più classica delle sue posture, che per un attimo rivedi la follia di un tempo, che capisci che se solo volesse potrebbe ancora scatenare gli istinti peggiori di chi ha di fronte. È lì, guardandolo, che capisci il filo conduttore tra lui e Jim Morrison, entrambi nati lontani da Los Angeles, ma diventati simboli assoluti della città che più di ogni altra è stata simbolo tanto di rivoluzione culturale che di decadenza assoluta. Non a caso, quando a Slash chiesero con quale altro grande frontman del passato avrebbe sognato di suonare, lui senza pensarci troppo fece proprio il nome del leader dei Doors: «Per la capacità quasi esotierica di creare caos e spingere la gente oltre i propri limiti. Cosa che ho visto fare spesso ad Axl».
La scaletta è stata degna di uno dei luoghi più suggestivi al mondo e ha attraversato per intero la storia del gruppo. Suggestivo l’inizio con It’s So Easy, seguita a ruota da una versione strepitosa di Mr. Brownstone e da una sentita Slither, omaggio ai Velvet Revolver e al troppo dimenticato Scott Weiland. È però con Welcome To The Jungle e il celebre “do you know where the fuck you are?” che il concerto prende definitivamente il volo: da lì in avanti le hit saranno così tante da avere la sensazione che la band abbia deciso di suonare ogni brano inciso.
Ottime anche le nuove (anche se provenienti dalle session di Chinese Democracy) Hard Skool e Absurd, con questa che convince molto di più che in studio, che insieme a There Was A Time, This I Love e alla title track dimostrano nuovamente la validità del disco più deriso di sempre. Al di là dei classiconi scritti di proprio pugno, però, sono ancora una volta le cover a farla da padrona: al di là di Knockin On Heaven’s Door (a onor del vero spesso lasciata fuori ultimamente dalle setlist), a far saltare il banco ci pensano T.V. Eye, Walk All Over You degli AC/DC e, soprattutto, Down On The Farm (per chi scrive, il momento più alto della serata). Prima di Pretty Tied Up, Axl ha detto: «Questa la vogliamo dedicare a Silvio Berlusconi e ai suoi bunga bunga parties».
In fin dei conti, la vera differenza tra i Guns di oggi e quelli di un tempo non sta tanto nell’età, nelle vicissitudini che si possono ancora vedere tatuate sulla loro pelle o nel modo di intrattenere il pubblico. Quello che è venuto a mancare è inevitabilmente quel senso di pericolosità e schizofrenia, che forse solo una band come gli Stooges è riuscita a mostrare fino alla fine dei propri giorni. Il rischio però è quello di farsi ingannare ancora dai pregiudizi. Quello di oggi non è una show da residency a Las Vegas, o per lo meno non solo. La rabbia ha lasciato forse spazio a uno spettacolo che sembra reggersi sul puro intrattenimento, ma allo stesso tempo rappresenta ancora uno Stargate credibile verso il periodo storico in cui nacquero, seppur ripulito e meno spaventoso. Più risolti, insomma, ma non meno disillusi.