Parlando con alcune persone incontrate nella fiumana di gente (sulle 25 mila presenze) che stanno lasciando Ippodromo San Siro di Milano dopo il concerto di Liberato all’interno della rassegna Milano Rocks, mi sembra di trovarmi in mezzo a dei fedeli religiosi.
Tra chi recita salmi (le canzoni), chi porta sulla pelle simboli e stigmate del culto (i trasferelli a tema distribuiti all’ingresso) e chi diffonde il verbo (pubblicando sui social i video del concerto), la sensazione è quella di aver preso parte – a mio insaputa – ad un raduno di fanatici.
In ogni conversazione post-concerto mi viene ribadita con vigore la specialità e la perfezione di quanto appena accaduto anche se, coi miei occhi di San Tommaso, penso di aver assistito ad un ottimo concerto condito però da alcune leggerezze (o sgravate) che gli stessi fedeli non avrebbero permesso a nessun altro artista. Ma qui non parliamo degli altri artisti, ma bensì di una divinità senza volto (cioè, quasi, ma ci siamo intesi): Liberato.
Ora che sono lontano dai membri del culto e tranquillamente protetto dallo schermo di questo computer, posso fare coming out: sono andato a vedere Liberato da agnostico. E il concerto mi è piaciuto, sicuramente, ma senza farmi impazzire, senza farmi gridare al miracolo anche se attorno a me c’era chi si strappava i capelli disperso in quesat allucinazione collettiva.
Il live di Liberato, parlando dei fatti, più che di religione, fa il suo dovere. Minimale e pulita, la messa in scena (con visual e luci a cura di Quiet Ensemble e Martino Cerati) è paragonabile ai grandi artisti internazionali e non sfigurerebbe in nessun festival (come infondo era già stato dimostrato al Sónar di Barcellona nel 2018). Il palco è posto a metà tra un fondale a led e uno schermo semitrasparente, rendendo le proiezioni davanti e dietro la band come tridimensionali, creando un intrigante e continuo gioco di vedo-non-vedo che ben si sposa concettualmente con l’anonimato richiesto dal progetto. L’artista e la band diventano quindi delle silhouette nere annegate in un mare di colori. Semplice, ma di grandissima resa.
Musicalmente, invece, la performance è altalenante. Ci sono dei momenti che funzionano e girano splendidamente, in particolare la primissima parte del set, molto più partecipata anche dalla band, e altri che invece si incastrino in decisione abbastanza inspiegabili come l’eccessivo utilizzo di mash-up paraculi che invadono la seconda parte della scaletta. Si passa quindi dall’avant pop con cui Liberato ha scritto una pagina importante della musica pop italiana ad un inutile (diciamocelo, onestamente, con la mano sul cuore) festa anni 90-2000 con una mitragliata di hit da discoteca messe paro-paro (da Freed From Desire – su cui il pubblico ultras intona ‘Pioli is on fire’, chiedete a Bob Sinclair un pensiero a riguardo – a Gypsy Woman (La Da Dee La Da Da) che invadono senza troppo gusto la scaletta, ingolfandola di una mediocrità non necessaria che – inevitabilmente – sfoggia nei coro da stadi, nei ‘po-po-ro-po-po’, in quelle cafonate a cui ti vergogneresti di partecipare se fosse qualsivoglia altra occasione (matrimoni e feste di laurea esclusi). Ma qui siamo da Liberato e sono tutti troppo-felici di aver pagato una discreta-somma-di-denaro per cantare il ritornello di The Weekend di Michael Gray (una scelta che manco al karaoke): momento fondamentale del rituale.
Ma infondo, a pensarci, la musica di Liberato è postmoderna, un pastiche di cose già sentite e risentite reinventate e rimasticate però in una chiave contemporanea, radicata nel locale, in un intelligente uso di citazioni alte e basse, dalla Pc Music al folklore partenopeo, dal suono UK alla frangia più semplicistica del reggaeton (c’è stato un momento in cui una chitarra acustica mi ha ricordato il riff di Obsesion degli Aventura, giusto per dare un’idea). Non stupisce quindi che durante il live ci sia una sentita citazione per la santità Pino Daniele e un’altra altrettanto partecipata per la popolare Get Get Down di Paul Johnson: per il fedele è tutto congruente, anche se magari queste hit anni ’90 in un altro momento le avrebbe odiate. Ma il contesto gioca il suo ruolo è qui niente è sindacabile: tutto è verbo.
Quello che quindi realizzo nella fiumana di gente che sta lasciando l’Ippodromo è che Liberato è un mito, non nel senso dato da Max Pezzali al termine, ma nell’etimologia più alta del termine. Nel suo esistere e non esistere, nel suo essere nessuno e mille nomi, Liberato non è che un racconto, orale e sonoro, che viene tramandato di bocca in bocca dal pubblico che esce da questi rituali magici. E come per ogni mito, spetta al singolo individuo dare la propria interpretazione di quanto vissuto. C’è chi, ciecamente fedele, ha trovato la fede dove la cercava e chi, agnostico, se non addirittura ateo, non può vedere oltre alla realtà fatturale, perdendo quella sfera d’irrealtà che rende indimenticabile l’avvenimento. Fortunatamente, ne escono tutti giustamente soddisfatti nelle aspettative: gli agnostici si sono divertiti e i fedeli hanno potuto assistere all’apparizione.
Suonata l’ultima nota, inizia a piovere: segnali divini.