La seconda metà del 2022 è stata una stagione di grandi concerti rap. Soprattutto, di concerti festosi: la celebrazione gioiosa e trionfale dei traguardi, numerici e simbolici, a cui un genere a lungo bistrattato e i suoi artisti di punta possono finalmente aspirare. Ecco, quello di Paky all’Alcatraz di Milano non era decisamente su quella lunghezza d’onda. O meglio, in teoria ambiva a esserlo: ieri sera il locale era più che sold out, con 3500 paganti pronti a saltare insieme al rapper emergente più in hype del momento, e una serie di ospiti eccellenti – Marracash, Gué e Luché, tra gli altri – erano venuti a consacrarlo una volta per tutte agli occhi di pubblico e critica.
Ma nell’aria si percepiva un sentimento diverso, rispetto alla soddisfazione per i riscontri ottenuti e alla voglia di godersi una sospirata vittoria. Su quel palco si avvertivano una rabbia sorda, un bisogno di rivalsa, una orgogliosa incomunicabilità, talmente urgenti e genuine da offuscare tutto il resto. Come se Paky non fosse mai arrivato primo in classifica con l’album Salvatore (di cui è appena uscito un repack, intitolato Salvatore vive). Come se non ce l’avesse mai fatta a dimostrare a tutti di che pasta è fatto. Come se non avesse mai cambiato davvero il corso della sua vita. Come se non avesse mai lasciato il suo quartiere, Rozzano, che tanto gli ha dato in termini di legami e motivazione, ma tanto gli ha tolto in termini di opportunità e sbocchi possibili.
E in effetti Paky da Rozzano non è mai uscito davvero. Lo dice lui stesso nei brevi spezzoni di video che intervallano un set e l’altro, una sorta di documentario che svela i retroscena della sua quotidianità e della sua rapida ascesa: «Faccio tutto qui, scrivo qui, vivo qui», confida mentre si aggira per le vie di un comune dell’hinterland milanese più famigerato che famoso (Rozzangeles, come lo chiamavano gli zarri negli anni ’90; Rozzi, come lo chiama lui). Ci è arrivato nel 2009, a 10 anni, dopo essere cresciuto tra Secondigliano e Fuorigrotta: la sua è una delle tantissime famiglie meridionali trapiantate lì, in un quartiere dove «per la mentalità della gente sembra di stare al sud», come spiega un suo amico. La sua musica non è escapismo: nelle sue canzoni non gli interessa dipingere un mondo a tinte accese e irreali, gli basta la scala di grigi cupi e fuligginosi che la vita vera gli ha fornito in dotazione. Non c’è stylist o costume di scena, sale sul palco vestito esattamente come va in giro di solito, con tanto di borsello a tracolla. Niente scenografia, se non una riproduzione della torre Telecom di Rozzano, suo malgrado diventata il simbolo della cittadina. Niente coreografie sontuose, ma un gruppo di comparse reclutate informalmente per mettere insieme qualche scena di vita di strada: bambini che giocano, ragazzini che smazzano sostanze, una rapina con tanto di scooterone che entra da una quinta e poi sgomma via, perfino un arresto comprensivo di finti carabinieri.
Non gliene frega niente neanche di raccontarsi a chi non può capirlo: “Schifo le domande, non faccio interviste / Non ho maschere sul viso, fra, il mio viso è triste”, dice nelle prime barre di Vita sbagliata, una delle tracce in cui i suoi fan si riconoscono di più, a giudicare dal riscontro live. È vero: coi giornalisti non parla quasi mai, e anche sul palco pronuncia poche frasi, tutte di ringraziamento al suo pubblico. «Se avete speso anche solo un euro per essere qui, vi sarò debitore a vita», dice a un certo punto. Sa bene che per chi ha poco o nulla, risparmiare per acquistare il biglietto di un concerto è un gesto a tratti rivoluzionario. Paky si rivolge a quelli come lui, e rifiuta di integrarsi in un mondo da cui si è sentito più volte rifiutato. Non a caso, il live si apre con l’intro di Salvatore, il suo album di debutto, il cui testo è tutto un programma: “La mia merenda a scuola aveva sempre nomi strani / Durante il cambio dell’ora guardavo dentro agli zaini / Ed è lì che realizzai, ero diverso dagli altri / Prof diceva: Tu sei bravo, se solo un po’ ti applicassi / Mia madre avrebbe voluto, invece, che mi diplomassi / Perché lei lavava i cessi, mio padre disoccupato / Casa l’abbiamo occupata, la luce era staccata / Ci mancava l’acqua calda, non andava la caldaia / Lo stipendio non bastava mai per ricomprarne un’altra”.
La rabbia, dicevamo, sembrerebbe essere il motore che lo muove davvero. Una rabbia a tratti furiosa, che pervade anche i pezzi apparentemente più leggeri (“Tre litri di profumo non tolgono il tanfo di infame”, dice nella super hit virale Auto tedesca), e a tratti talmente disperata da risultare quasi intollerabile. Non a caso, come specifica in Non scherzare, perfino nell’alias che si è scelto c’è ben poca luce: “Mi manca l’aria / Chiedimi ancora perché il nome è Pakartas”, sfida l’ascoltatore. Pakartas, abbreviato in Paky, è un termine lituano che significa “impiccato”. E mentre sputa le barre in questione è in piedi sul soppalco dell’Alcatraz: è appena spuntato un cappio appeso al soffitto, che si è infilato al collo prima di attaccare la prima strofa e che non si leverà fino a quando non avrà concluso l’ultima. Un colpo di teatro? Forse. Ma è difficile non pensare che ci sia qualcosa di più, dietro a quel gesto che molti bollerebbero come semplice cattivo gusto o sboroneria.
Una cosa è certa: Paky è una delle penne più interessanti degli ultimi anni, e uno dei rapper più promettenti d’Italia. È chiaro a maggior ragione anche dopo questo live che, pur con le ingenuità e i cali di ritmo tipici di quando si stanno ancora prendendo le misure di palchi così grandi, è riuscito a dominare, senza farsi intimidire e senza troppi aiutini in termini di backing tracks. Ma se la sua (giusta) rabbia finora lo ha portato lontano, non possiamo che augurargli che in futuro ci venga a patti, passi oltre e decida di scoprire cosa gli riserva il resto della sua vita. Non perché rischi di venirci a noia, ma perché è un peccato restare ostaggio di un sentimento così limitante. Al suo prossimo concerto, ci piacerebbe vederlo godersela ancora di più. Se lo merita.