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Il mondo continuerà a dividersi tra chi non capisce Taylor Swift e chi la ama, e va bene così

Milano bloccata, braccialetti dell'amicizia e tutto il resto. Il concerto della cantautrice è una macchina americana che non permette sbavature: quasi 50 canzoni per più di tre ore di concerto. Un celebration tour con così tanta roba che non ci si crede che abbia solo 35 anni. Ecco com'è andata

Foto: Vittorio Zunino Celotto/TAS24/Getty Images for TAS Rights Management

Che bisogna dire dell’Eras Tour di Taylor Swift? Lo diciamo seriamente. È un tour che va avanti da un anno, lo sanno anche gli alberi. C’è tutto su Disney+ da mesi, escono video sui social ogni giorno, ci sembra di conoscerlo già anche se non l’abbiamo mai visto. A ogni modo ieri sera Miss Americana è arrivata anche a Milano, e giù di articoli che parlano di fatturato, di PIL, di evento irripetibile. L’aria che si respira in città è proprio quella della roba unica. Già due giorni prima la città è invasa di fan, il centro perlomeno. Sono ovunque, li riconosci. Hanno i braccialetti dell’amicizia, vestono di glitter. Al Carrefour di via Torino ci sono le sue canzoni mentre fai la spesa, gli stranieri ti chiedono info su come raggiungere lo stadio facilmente, insomma, è the place to be.

Nello stesso periodo qualche anno fa ci sono stati i concerti di Beyoncé e Rihanna, ma gli effetti sul cittadino medio erano ben diversi. Qui non si parla d’altro, complici i media italiani che raccontano ogni movimento. Arriviamo allo stadio per le cinque del pomeriggio, le metro sono già intasate. Intorno alle 18.45 iniziano a suonare i (bravissimi) Paramore. Finiscono e poco dopo parte un countdown con la canzone You don’t own me di Lesley Gore. Alle 20 in punto Taylor è sul palco tra le urla delle persone che sembrano far vibrare lo stadio. La popstar più famosa del mondo è qui, è a Milano, ora. «Piacere di conoscervi» dice in italiano prima di iniziare il suo show. 46 canzoni, più di tre ore di live. Già dall’ingresso, con i ballerini trasformati in grossi petali ondeggianti, la prima cosa che pensi è «che bello avere budget». «Milano, benvenuti all’Eras Tour. Questa è la prima volta che canto qui in 13 anni. Manco da tantissimo, vi giuro che non succederà più di aspettare così tanto. Guardavo la lista delle città del tour e dicevo: non vedo l’ora di fare festa con gli italiani!». Il pubblico non capisce più niente. Tra la folla sono tanti gli stranieri, vero anche questo. Ma ci sono sopratuttto tutti gli swifties d’Italia (tra ieri e oggi sono previste 140.000 persone). Si parte con la sua fase country, quella degli esordi, e possiamo probabilmente dire di aver assistito al primo concerto country della storia del Meazza (con tutta la simpatia per Davide Van De Sfroos).

Tre ore e fischia, dicevamo. Ha solo 35 anni e fa già i concerti come Springsteen. Perché l’Eras Tour è già un celebration tour in piena regola, con così tanta roba che non ci si crede che Taylor sia nata solo nel 1989. Le ‘ere’ procedono senza sosta, non c’è tempo da perdere se ci sono da fare quasi 50 canzoni. Su Enchanted i fan più hardcore tirano fuori dei cartelli A4 con la scritta «we are enchanted to have you here». Una dimensione che rende impossibile la lettura per me che sono in mezzo a loro, figuriamoci per la cantante, ma che importa. Lasciamogli vivere il sogno. Lasciamoli immedesimare nella vita amorosa di Taylor, fatta di celeb e indizi, giochiamo al gioco che siamo come lei. Anzi, che lei è come noi.

Ogni tanto ci fermiamo a pensare che la persona che abbiamo davanti è così famosa che venire al suo concerto in fondo è un po’ come ripassare tutta la pop culture degli ultimi anni, tra ex importanti e canzoni che se sai a chi sono dedicate cambia tutto. Ma non c’è troppo tempo per pensare, si va avanti senza sosta: quando è il momento di Reputation partono i serpenti sui wall. Comincia Are you ready for it? e lei esce vestita un po’ come Heather Parisi ai tempi d’oro ma in versione cattiva, tipo sottosopra di Stranger Things. Passa anche quella e arriviamo a Foklore, l’album della pandemia. Quello che il concept era tutto natura e boschi. Sul palco spuntano delle conifere e una baita, con lei canta Cardigan sul tetto. L’abbiamo già detto che è bello avere budget?

Il concerto di Taylor Swift è tutto un susseguirsi di cambi di ambientazioni con un ritmo che non lascia spazio a improvvisazione. Una grande macchina, direbbero alla finale di X Factor. Una grande macchina americana, aggiungiamo noi. E per americana intendiamo maestosa, a volte quasi plastica. Non c’è spazio per improvvisare nulla. Quando il pubblico urla lei si ferma, quasi facendo finta di essere stupita di tutto l’amore e di tutte le grida. In tutto questo non siamo neanche a metà concerto, e il primo ragionamento che facciamo è: prendiamo l’esempio di Jennifer Lopez (altro paio di maniche, chiaramente), che ha dovuto trasformare il tour in un Greatest Hits perché non vendeva biglietti, e poi l’ha pure annullato perché i biglietti non li vendeva lo stesso. Qui è l’esatto contrario. Più pezzi secondari ci sono, meglio è. Sono tutte sorprese da vivere come un regalo immenso, e la gente sembra non averne mai abbastanza. Quante popstar possono fare lo stesso, alternando momenti con ballerini e scenografie mobili a momenti più intimi (i migliori), con solo chitarra e microfono?

Taylo Swift a San Siro. Foto: Vittorio Zunino Celotto/TAS24/Getty Images for TAS Rights Management

Già per questo l’Eras Tour è peculiare. È un concerto che puoi fare solo a 35 anni, fatto così. Tra dieci anni non sappiamo se sarà semplice reggere uno show del genere, sia per lei che per i fan (che con l’età avranno probabilmente meno voglia di stare cinque o sei ore allo stadio).

Segue un momento in cui si siede a un pianoforte tutto ricoperto di muschio (d’altronde siamo ancora nel bosco): la gente inizia a urlare «Taylor, Taylor!», lei si toglie le cuffie e dice «What is that?». Sembra emozionata, stupita. Quanto può esserlo una che ha collezionato dei numeri e una carriera così? «Grazie. You are just the best, you know that». Gli americani restano dei professionisti delle buone maniere. A un certo punto aggiunge: «Evermore nasce durante il lockdown. Non sapevo quando avremmo potuto cantare questi pezzi dal vivo. Scrivevo e dicevo “chissà se le canterò in uno stadio a Milano». Facciamo finta di crederci, va bene così.

Raramente ci siamo trovati davanti a un concerto del genere. E intendiamo una celebrazione che sembra studiata dal fan più ossessionato. Tutto giusto, tutto come lo vogliono le decine di migliaia di persone che sono arrivate da tutto il mondo per lei (non proprio tutte eh, di fianco a me una ragazza mi chiede a che punto sarà il brano Lavender Haze. Lei è qui per il chitarrista, e sa che lui sarà sul palco durante quel pezzo. Altro mistero Tayloriano). Tra i momenti da superstar ce ne sono alcuni, come dicevamo prima, in cui appare completamente sola, sul palco, con la sua chitarra. Vedere che una donna che lo fa, a San Siro, è qualcosa di potente. Ci fa pensare che sarebbe bello vederlo più spesso.

A un certo punto il pubblico intona un coro sulle note di Sei bellissima di Loredana Bertè. Col volume che producono 70.000 persone dovrebbe essersi sentito fino a Pavia. Lei ferma tutto, toglie gli auricolari: «Grazie. Wow! Nessuno è mai stato così tanto buono con me in tutta la mia vita!». Ripetiamo quello che abbiamo detto sugli americani.

Dopo stasera chi non la capisce continuerà a non capirla, chi la ama invece è andato a casa col cuore pieno di queste tre ore che, per il numero di canzoni e per quantità di roba ascoltata, hanno fatto dimenticare i tredici anni d’attesa. A un certo punto si ripete una scena che era già successa: mentre suona il piano ingoia un insetto. Ci siamo immaginati la squadra del sindaco fustigata per non aver fatto la disinfestazione. Com’era? «I’m sorry, Beppe Sala can’t come to the phone right now…».

Usciamo dallo stadio e vediamo che centinaia di persone senza biglietto ballano e cantano in zona paninari: un fenomeno così mediatico non si vedeva da un po’. Guardandola dal vivo abbiamo capito che Taylor Swift si è costruita tutto quello che voleva, passo dopo passo, senza lasciare niente al caso. Mica per niente ha iniziato con You don’t own me.

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