Un concerto di Carla Bruni in Italia, «finalmente!», ed è lei a dirlo levandosi un peso dal cuore che «questa sera batte fortissimo: sono molto emozionata». L’incantesimo è spezzato, la bella addormentata – nelle menti di tanti connazionali con poca intelligenza e ancor meno ironia – è più viva che mai, in questo set perfetto a Milano (preceduto da una data a Spoleto) che è un atto d’amore nei confronti del Paese in cui è nata, da cui è andata via, dove è tornata per lavorare, ma che poi l’ha sempre poco compresa, in questa sua carriera di chansonnière. Di lei non si fidava, a dispetto di una instant hit da cui vent’anni fa è cominciato tutto, e che bastava a provare la sua stazza d’autrice. Le ha fatto il verso sempre, spesso senza nemmeno ascoltarla: per la erre arrotata, per suo marito, per l’immutata bellezza, e che barba, che noia, non vi siete stufati?
L’incantesimo è spezzato perché è lei a incantare. E da subito il Dal Verme – mentre tutti suonano negli ippodromi in mezzo al fango, lei sceglie il festival indoor Worm Up nel salotto degli sciuri in centro – è casa sua. C’è tutto un frisson, la platea è caldissima ancora prima di iniziare. Quando Sarkozy prende posto in sala, parte un applauso scrosciante: cose mai viste a Milano, la città che si crede internazionale e che finalmente può indulgere al suo essere strapaese. Sarà così per tutta la sera, «con l’eros si risolve tutto», dice lei, e questa carica sì erotica – di lei che seduce, del pubblico che ricambia senza pudore – trasforma un concerto perbene in un happening da stadio: pare Nino D’Angelo al Maradona.
Carla Bruni ha un repertorio – misconosciutissimo da noi – che da solo riempirebbe diciotto concerti (io ne vorrei uno solo per il disco dei poeti inglesi, ma capisco che sono minoranza). Il set italiano, breve ma denso, è un buon sunto di tutto quello che è stata negli anni: ottima cantautrice, oculata interprete di standard che ha saputo fare suoi, anche un po’ attrice per come usa il palco per mischiare racconto e canzone – se facesse una residency da qualche parte, io ci andrei tutte le sere.
I tre con lei sul palco – Taofik Farah alle chitarre, Michel Amsellem al piano e alle tastiere, Julie Gomel al basso – sono meravigliosi musicisti e meravigliose spalle, in questo racconto che, con l’intelligenza che la madame ha sempre dimostrato, gioca sempre d’anticipo: quando canta L’amoureuse, bel pezzo dal terzo disco uscito in pieno premièredamato, indica teatralmente Sarkò in platea. C’è la parte italiana (con testo a fronte: Dolce Francia è la traduzione di Trenet, Le ciel dans une chambre quella di Gino Paoli, che «mi ha fatto cantare con lui, dunque ora mi sento autorizzata a farla»); ci sono gli ABBA e i Rolling Stones, ma soprattutto i suoi pezzi antichi e moderni, Le plus beau du quartier («forse la prima canzone transgender»), Quelque chose, Grand amour, la recente bellissima Rien que l’extase («ci sono solo due cose nella vita: l’amore e la morte; ma la morte prendiamola con allegria»); e c’è ovviamente Quelq’un m’a dit, per cui prende la chitarra. La canzone di Carla (cit.) è ormai canone, ciò che non lo è lo diventa, ciò che nasce per esserlo è subito classico.
Carla Bruni è stata pochissimo compresa in Italia, dicevo, e contestata però pure in Francia. Non scomodiamo il sessismo, ma certo è che è sempre avvenuto, qua e là, per via dei suoi uomini: prima i filosofi di sinistra, poi il presidente di destra, parbleu!, dove la dobbiamo collocare. In questo siamo davvero cugini, sempre a mettere la politica sopra ogni cosa. Carla ha ogni volta risposto con la sua indipendenza da tutto e da tutti: come donna possiamo solo immaginarlo, visto che non la conosciamo; ma come artista – l’abbiamo visto negli anni – rivendicando quella stessa curiosità, quella libertà, quell’istinto degli inizi.
«Forse prima di Belve non sarei venuto, ma è stata anche più brava di quanto pensassi», dice un amico incontrato nel foyer. Si dice “potere della televisione”, ma certamente il passaggio chez Fagnani ha contribuito a ricollocare Bruni nell’interesse nazionale. O quantomeno a certificare quella curiosità, quella libertà, quell’istinto che mette anche nella musica.
«Siete il pubblico più bello che abbia mai avuto, siete un miracolo», e si sente che è sincera, questa strega (buona) che ammalia, questa Circe che cammina, accenna passi di danza, si passa le mani fra i capelli, e che con la voce – parlata, cantata – tutto può. È sincera perché quello con l’Italia era un rapporto interrotto. E perché in questa strana platea – molta comunità gaia, un po’ di terza età genere Piccolo Teatro, belle donne con bei vestiti a fiori, di fianco a me una ragazza GenZ da sola che ride sguaiatamente davanti a ogni spassoso interludio della chanteuse – si sente pulsare un’energia inusuale.
Finisce con una specie di streaker, però incamiciato, che sale sul palco a concerto non ancora terminato per chiederle un selfie, e lei che signorilmente lo concede. E poi saltan su altri coi dischi da firmare, e i mazzi di fiori da lasciare alla divina. Di colpo è pure troppa Italia, ma è bello così. «Ho letto che starebbe per fare un disco in italiano», sento dire all’uscita. «Ma vuoi vedere che tenta Sanremo?», fa un altro. E sarebbe una mossa forse geniale, da parte di quel genio di Carla. Se succederà, altra gente si lamenterà, ma questo sarà mica cantare, e il marito, e la erre arrotata, e nel caso ci dispiacerà per voi, che vi perderete ancora una volta tutto il talento e il divertimento di questa italiana qua.