Rolling Stone Italia

Innamorata, divertente, generosa: Carla Bruni si prende (finalmente) l’Italia

Nel concerto perfetto di Milano (preceduto dalla data di Spoleto) la chansonnière gioca, ammalia, si gode la storia d’amore con il suo Paese (e con Sarkozy in sala), che sembra oggi ricambiarla. Era ora

Foto: David Wolff-Patrick/Redferns via Getty Images

Un concerto di Carla Bruni in Italia, «finalmente!», ed è lei a dirlo levandosi un peso dal cuore che «questa sera batte fortissimo: sono molto emozionata». L’incantesimo è spezzato, la bella addormentata – nelle menti di tanti connazionali con poca intelligenza e ancor meno ironia – è più viva che mai, in questo set perfetto a Milano (preceduto da una data a Spoleto) che è un atto d’amore nei confronti del Paese in cui è nata, da cui è andata via, dove è tornata per lavorare, ma che poi l’ha sempre poco compresa, in questa sua carriera di chansonnière. Di lei non si fidava, a dispetto di una instant hit da cui vent’anni fa è cominciato tutto, e che bastava a provare la sua stazza d’autrice. Le ha fatto il verso sempre, spesso senza nemmeno ascoltarla: per la erre arrotata, per suo marito, per l’immutata bellezza, e che barba, che noia, non vi siete stufati?

L’incantesimo è spezzato perché è lei a incantare. E da subito il Dal Verme – mentre tutti suonano negli ippodromi in mezzo al fango, lei sceglie il festival indoor Worm Up nel salotto degli sciuri in centro – è casa sua. C’è tutto un frisson, la platea è caldissima ancora prima di iniziare. Quando Sarkozy prende posto in sala, parte un applauso scrosciante: cose mai viste a Milano, la città che si crede internazionale e che finalmente può indulgere al suo essere strapaese. Sarà così per tutta la sera, «con l’eros si risolve tutto», dice lei, e questa carica sì erotica – di lei che seduce, del pubblico che ricambia senza pudore – trasforma un concerto perbene in un happening da stadio: pare Nino D’Angelo al Maradona.

Carla Bruni ha un repertorio – misconosciutissimo da noi – che da solo riempirebbe diciotto concerti (io ne vorrei uno solo per il disco dei poeti inglesi, ma capisco che sono minoranza). Il set italiano, breve ma denso, è un buon sunto di tutto quello che è stata negli anni: ottima cantautrice, oculata interprete di standard che ha saputo fare suoi, anche un po’ attrice per come usa il palco per mischiare racconto e canzone – se facesse una residency da qualche parte, io ci andrei tutte le sere.

I tre con lei sul palco – Taofik Farah alle chitarre, Michel Amsellem al piano e alle tastiere, Julie Gomel al basso – sono meravigliosi musicisti e meravigliose spalle, in questo racconto che, con l’intelligenza che la madame ha sempre dimostrato, gioca sempre d’anticipo: quando canta L’amoureuse, bel pezzo dal terzo disco uscito in pieno premièredamato, indica teatralmente Sarkò in platea. C’è la parte italiana (con testo a fronte: Dolce Francia è la traduzione di Trenet, Le ciel dans une chambre quella di Gino Paoli, che «mi ha fatto cantare con lui, dunque ora mi sento autorizzata a farla»); ci sono gli ABBA e i Rolling Stones, ma soprattutto i suoi pezzi antichi e moderni, Le plus beau du quartier («forse la prima canzone transgender»), Quelque chose, Grand amour, la recente bellissima Rien que l’extase («ci sono solo due cose nella vita: l’amore e la morte; ma la morte prendiamola con allegria»); e c’è ovviamente Quelq’un m’a dit, per cui prende la chitarra. La canzone di Carla (cit.) è ormai canone, ciò che non lo è lo diventa, ciò che nasce per esserlo è subito classico.

Carla Bruni è stata pochissimo compresa in Italia, dicevo, e contestata però pure in Francia. Non scomodiamo il sessismo, ma certo è che è sempre avvenuto, qua e là, per via dei suoi uomini: prima i filosofi di sinistra, poi il presidente di destra, parbleu!, dove la dobbiamo collocare. In questo siamo davvero cugini, sempre a mettere la politica sopra ogni cosa. Carla ha ogni volta risposto con la sua indipendenza da tutto e da tutti: come donna possiamo solo immaginarlo, visto che non la conosciamo; ma come artista – l’abbiamo visto negli anni – rivendicando quella stessa curiosità, quella libertà, quell’istinto degli inizi.

«Forse prima di Belve non sarei venuto, ma è stata anche più brava di quanto pensassi», dice un amico incontrato nel foyer. Si dice “potere della televisione”, ma certamente il passaggio chez Fagnani ha contribuito a ricollocare Bruni nell’interesse nazionale. O quantomeno a certificare quella curiosità, quella libertà, quell’istinto che mette anche nella musica.

«Siete il pubblico più bello che abbia mai avuto, siete un miracolo», e si sente che è sincera, questa strega (buona) che ammalia, questa Circe che cammina, accenna passi di danza, si passa le mani fra i capelli, e che con la voce – parlata, cantata – tutto può. È sincera perché quello con l’Italia era un rapporto interrotto. E perché in questa strana platea – molta comunità gaia, un po’ di terza età genere Piccolo Teatro, belle donne con bei vestiti a fiori, di fianco a me una ragazza GenZ da sola che ride sguaiatamente davanti a ogni spassoso interludio della chanteuse – si sente pulsare un’energia inusuale.

Finisce con una specie di streaker, però incamiciato, che sale sul palco a concerto non ancora terminato per chiederle un selfie, e lei che signorilmente lo concede. E poi saltan su altri coi dischi da firmare, e i mazzi di fiori da lasciare alla divina. Di colpo è pure troppa Italia, ma è bello così. «Ho letto che starebbe per fare un disco in italiano», sento dire all’uscita. «Ma vuoi vedere che tenta Sanremo?», fa un altro. E sarebbe una mossa forse geniale, da parte di quel genio di Carla. Se succederà, altra gente si lamenterà, ma questo sarà mica cantare, e il marito, e la erre arrotata, e nel caso ci dispiacerà per voi, che vi perderete ancora una volta tutto il talento e il divertimento di questa italiana qua.

Iscriviti