Lo scorso 25 aprile, usciva sul quotidiano La Stampa un’intervista a Mimmo Carretta, assessore ai Grandi Eventi del Comune di Torino, in cui traspariva la volontà di voler far rivivere l’esperienza del glorioso Traffic, il festival musicale gratuito che per circa un decennio segnò le estati torinesi, dalla fine degli anni ’90. Il tono era tra il nostalgico e il propositivo, come se da anni fosse rimasto un buco da colmare e fosse giunta l’ora di rimettere in piedi quel modello vincente – tant’è vero che in questi giorni si parla di creare un’apposita Music Commission che si possa occupare esplicitamente di eventi del genere.
Ma siamo sicuri che l’unico modo di fare cultura passi dall’organizzazione di grandi eventi? Il Traffic avveniva in un’altra epoca e riuscì per alcuni anni a coniugare qualità e grandi numeri, ma non è detto che oggi sia replicabile allo stesso modo. Peraltro, eventi torinesi di una certa importanza già ce ne sono parecchi: TOdays e Club 2 Club, festival celebrati anche su testate straniere e che raccolgono spettatori provenienti da tutta Europa, e altri forse meno chiacchierati ma con proposte assolutamente non trascurabili come Flowers, Kappa, Torino Jazz Festival, Reset e forse ne dimentichiamo.
Si potrebbe però obiettare che i suddetti festival non sono gratuiti, mentre invece questa era una delle caratteristiche peculiari del Traffic. Tuttavia, fatte le debite proporzioni, in realtà un festival musicale gratuito della città di Torino esiste già: si chiama Jazz Is Dead, è giunto alla quinta edizione e quest’anno si è svolto proprio nel weekend appena trascorso, da venerdì 27 a domenica 29 maggio. Ovviamente parliamo di altri numeri, anche se ogni anno la sua proposta cresce (quest’anno ha superato le 7000 presenze totali); e se (per il momento?) non presenta in cartellone stelle a livello planetario, la sua direzione artistica va a scovare nomi che sul piano qualitativo hanno perfino più motivi di interesse per essere valutati dal vivo.
Certo, la vocazione di questo festival non si è mai voluta nazionalpopolare. Il suo stesso nome, che va inteso come il superamento di un genere ormai canonizzato come il jazz, e pertanto l’avvicinamento a forme musicali più vicine all’avanguardia, è un manifesto programmatico; non a caso il tema di quest’anno è la mutazione. Che si traduce in definitiva in un programma dall’eclettismo estremo, che può consentire di assistere, nell’arco delle tre giornate, tanto a concerti di vecchie glorie della musica sperimentale quanto a dj set di giovanissimi producer che presentano le ultime sensazioni dance. E il pubblico è altrettanto eterogeneo, poiché rappresenta appassionati degli stili più diversi e per una volta accoglie, cosa non scontata, anche giovanissimi sui vent’anni. Succede poi che, dei nomi annunciati in programma, mediamente se ne conoscono bene due o tre, per sentito dire altrettanti, e i restanti sono sconosciuti. Ma il bello è proprio quello: l’intenzione esplicita di creare un continuo contrasto di suoni, atmosfere e umori, e la possibilità di scoprire personaggi non troppo noti, che magari diventano una sorpresa assoluta – o che possono al contrario anche rivelarsi delusioni cocenti.
Non hanno deluso i veri headliner, tra i quali la nostra preferenza va ai Fire! di Mats Gustafsson, un trio heavy jazz capace di coniugare perizia strumentale con una potenza espressiva fuori dal comune. Su basi di basso e batteria tanto precise quanto aggressive, il sax di Gustafsson stride, brontola, ruggisce, sibila e seduce; non genera le stesse meraviglie del suo sodale Colin Stetson (che aveva suonato un mese fa in un’anteprima del festival, mettendo in scena un sound pirotecnico di barriti catacombali e impressionanti frenesie elettronificate), ma non lascia scampo alcuno all’ascoltatore.
A volte le cose hanno funzionato un po’ meno bene. Ad esempio: c’erano grandi aspettative per lo show di Kali Malone, di fatto il concerto di apertura della rassegna, soprattutto per la presenza della chitarra di Stephen O’Malley dei Sunn O))). Il risultato però è stato un drone monolitico di un’ora intera, dal quale era praticamente impossibile discernere qualsiasi intervento solista, e le cui impercettibili variazioni sonore non sono state sufficienti a compensare un sentimento di noia perplessa. Tutta un’altra musica il giorno dopo: erano di scena i virtuosismi di Valentina Magaletti alla batteria con gli Holy Tongue, che magari non inventano nulla, ma sanno creare col loro dub funk un groove assolutamente ballabile. Vale all’incirca lo stesso discorso per MC Yallah x Debmaster, voce e soundsystem, altrettanto coinvolgenti e caldi, e per Anteloper, che stanno su un piano ancora diverso, in precario equilibrio tra sperimentalismi noise e funk urbano. In sostanza, rispetto a un certo cerebralismo più o meno voluto, davvero qualcosa di liberatorio; ma è proprio in questa alternanza tra impatto mentale e pura fisicità che il festival assume il suo senso di esperienza a 360°.
Un evento come il Jazz Is Dead dà anche modo di assistere a modalità diverse di intendere la musica cosiddetta sperimentale. Lo spettacolo di Charlemagne Palestine, storico maestro del minimalismo americano che ormai è vicino agli 80 anni, è stato esattamente quello che ci si può aspettare da un concerto di quel genere. Suoni alieni, distorsioni, accostamenti impossibili (elettronica, percussioni sintetiche, il pianoforte di Palestine, una viola elettrica, e soprattutto le tre voci, trattate digitalmente, intrecciate, sovrapposte), ma al contempo la capacità di trasmettere emozioni vere; che proprio per l’apparato sonoro che le sostiene, sono qualcosa di indescrivibile. Su un piano completamente diverso, The Bug, ovvero quel genio di Kevin Martin, riesce a coniugare musica tetra e quasi orrorifica con un insospettabile senso del groove. Se inizialmente si pensa di assistere alla colonna sonora dell’apocalisse nucleare, piano piano le forme spigolose del sound si addomesticano e dopo un po’, complice l’intervento dell’MC Flowdan, prevale la voglia di dimenarsi e il pubblico cede all’impulso di ballare sfrenatamente. Trasformare un sound così scuro e incompromissorio in qualcosa di ballabile è un piccolo miracolo.
E se di miracoli vogliamo parlare non possiamo in conclusione non citare Pietra Tonale, un collettivo di circa 20 elementi nato proprio a Torino, che ha lasciato tutti a bocca aperta con un sound da big band jazz-rock che ricorda abbastanza i Soft Machine dei primi anni ’70 (in repertorio anche una cover della loro struggente Memories). Solo un esempio di come questo festival consenta di fare scoperte clamorose, che per certo nessuna playlist di Spotify avrebbe intercettato, e men che meno l’abitudine di tanti ascoltatori a rimanere nella propria comfort zone.
Da un evento come il Jazz Is Dead si può ripartire per creare veramente un fermento artistico e culturale che può rilanciare una città. Invece di ragionare solamente per grandi eventi, è proprio cercando di far crescere queste piccole realtà che si possono ottenere risultati di qualità e contemporaneamente un successo economico.