«Senza voce ma sempre cuore» dice Jim Kerr nel suo italiano imparato a Taormina al termine del concerto dei Simple Minds tenutosi ieri sera al Forum di Assago, ultima data della prima parte di un tour europeo che a giugno riprenderà toccando nuovamente l’Italia. Più volte durante la serata il cantante della band scozzese si è scusato per la sua performance, resa faticosa da una brutta influenza da cui si sta ancora riprendendo. «La band suona alla grande, io una merda», dice, «dovrete aiutarmi». In realtà, a dirla tutta, se non fosse così sincero sarebbe difficile accorgersi che nella sua voce qualcosa non va. «Mi dispiace», dice durante Belfast Child quando non riesce a prendere la nota che vorrebbe, ma è l’unico vero momento di défaillance di un concerto durante il quale i Simple Minds hanno puntato quasi tutto sui pezzi della loro fase “imperiale”, quella che va da New Gold Dream (1982) a Real Life (1991), lasciando solo le briciole della scaletta al loro periodo stracult di inizio carriera.
«È pieno di gente, spacchiamo il culo!», esclama sempre in italiano il cantante dopo aver constatato che, a partire dal basso dell’intro di Waterfront, incaricata di aprire il concerto, il pubblico ha tutta l’intenzione di andargli dietro. E forse il pubblico farebbe volentieri a meno dei posti seduti e numerati anche nel parterre. Una scelta discutibile per una band come i Simple Minds che ancora oggi fa della fedeltà alla liturgia del concerto rock uno dei suoi punti fermi. Anche perché spesso, trascinati dai pezzi di un repertorio prevalentemente uptempo, si alzano tutti in piedi. «È perché siamo un pubblico di vecchi» ipotizza qualcuno. Jim Kerr e Charlie Burchill, gli amici di una vita che hanno fondato la band per non uscirne più hanno in effetti 65 anni, ma le movenze sono sempre le stesse. Rallentate, ovviamente, ma la scelta del frontman è ancora quella di far passare la musica anche attraverso il corpo. «Ho un problema con la schiena», scherza dopo essersi messo in una posizione a rischio di colpo della strega.
La chitarra di Burchill, il suo interplay con il resto del gruppo, è il suono dei Simple Minds 2024, un mix che punta parecchio anche sulla voce di Sarah Brown. Il suo timbro soul viene in aiuto di un Kerr a rischio, e pezzi come Mandela Day e All the Things She Said diventano quasi dei duetti. Molto più di una semplice corista, come testimoniato anche dalla sua posizione al centro del palco, accanto al capobanda, e dal fatto che è lei a cantare, da sola, la Book of Brilliant Things posta in apertura dei bis.
Una scelta, quella della voce soul, che risale ai tempi di Once Upon a Time (1985), allorché Robin Clark (già collaboratrice di David Bowie in Young Americans) partecipò sia alle registrazioni del disco sia al successivo tour. I Simple Minds, insomma, citano se stessi, ma il loro gioco è talmente scoperto da non essere criticabile. Quando la batterista Cherisse Osei parte con un interminabile assolo, non fa che omaggiare la storia della band e il suo predecessore Mel Gaynor, che lo stesso assolo fece sullo stesso palco nell’ormai lontano 1991. «È lo stesso concerto» si spinge a dire qualcuno dopo aver constatato che anche i pezzi in scaletta sono quasi gli stessi di 33 anni fa (New Gold Dream l’album più saccheggiato). Vero, ma i Simple Minds, pur vivendo in una finestra temporale tutta loro, ci portano dentro anche il loro pubblico, e a giudicare dall’entusiasmo visto al Forum (sold out, oltretutto) il pubblico è ben contento di farcisi portare.
E a proposito di tempo, il concerto inizia alle 9, alle 10 e mezza si guarda l’orologio per la prima volta e ci si accorge che i minuti sono volati. «Devo andare a mangiare, mi si raffredda la pizza», scherza il cantante. Ma prima tocca fare Alive and Kicking, o meglio farla cantare quasi tutta al pubblico, come era avvenuto poco prima con Don’t You (Forget About Me). «È facile da cantare. La canto ogni mattina sotto la doccia», dice Kerr fingendo di strofinarsi le parti intime, per poi commentare con un sicilianissimo «minchia!» la risposta del pubblico.
Sono vivi e vegeti anche i Simple Minds, che finiscono ballando e salutando sul nastro di The Jean Genie, uno dei 45 giri che fecero innamorare del rock’n’roll due tredicenni di Glasgow a cui la cotta sembra non essere ancora passata.