C’è Milan-Napoli la sera del concerto di Luchè a Milano, per una strana combinazione dei calendari. Ma i cellulari con le dirette streaming spariscono subito appena si sente l’Intro di Potere.
Luchè sale sul palco sicuro, deciso. Perché quello che mette in scena è il suo cuore, i suoi compromessi mai raggiunti, il suo orgoglio. Per qualche motivo strano, è sempre stato uno sottovalutato, lo dice anche lui. Ma quello che si è visto all’Alcatraz è stato uno show completo e complesso.
Completo perché è stata la dimostrazione di quante cose sappia fare il rapper, come si muova tra i generi e gli stili, tra il cantato e il rappato, tra il napoletano e l’italiano, senza variare di un millimetro la sua attitudine.
Complesso perché non è semplice seguire uno che non segue nessuno. Potere è la dimostrazione di come si possa ancora non scendere a compromessi (“Non sono come quelli in fila per Supreme”) o fregarsene dei like e delle tendenze, ma giocare il rap game a colpi di punchline.
Tutto velato di un filo di malinconia, di emozione pura. Di passione. Che è quella che smuove tutto. Non ci sarebbe Luchè senza passione, quella che fa rompere la voce (“Le regalai dei fiori, le disegnai dei cuori”, Che Dio mi benedica, dopo poche tracce, è un colpo al cuore in ogni senso)e che è forse la sua unica vera cifra stilistica.
Se Stamm fort, cantanto assieme a Sfera sul palco – uno dei tanti ospiti del concerto, assieme a Noyz Narcos, D-Ross e Coco –, è un pezzo spaccone che strizza l’occhio ai più giovani, bombe di emozioni come Into rion e O’ primm ammore (assieme a Je ce credevo trittico di chiusura del live da brivido) confermano la storia di Luchè e il suo impegno, la sua dedizione, che l’hanno portato fino a qui.
A vincere, a Milano.