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La storia del rap nel corpo di Freddie Gibbs

Sul palco del suo concerto a Milano, il rapper dell’Indiana ha dimostrato di aver preso il meglio degli ultimi 30 anni di hip hop e di averlo fatto proprio, dal gangsta alla trap più cupa

Foto: Getty Images

Come ogni persona un po’ miope, ma non abbastanza da andare a sbattere contro gli ostacoli, mi capita spesso di non indossare gli occhiali ai concerti, cosa che tra l’altro permette di concentrarsi maggiormente sulla musica e di evitare di passare la serata a guardarsi intorno alla ricerca di facce conosciute. Nel caso del concerto di Freddie Gibbs, però, è un’esperienza abbastanza straniante, perché per voce, portamento e attitudine spesso sembra che sul palco ci sia un altro rapper. A tratti Tupac Shakur, a cui assomiglia anche vagamente (soprattutto quando, circa a metà dello show, rimane a torso nudo, come Pac soleva fare in molte sue esibizioni); a tratti DMX, per un certo uso rude della voce nei live; a tratti Busta Rhymes, quando si lancia in strofe a cappella dal flow iperbolico. Ma è un’impressione fugace e in continua transizione, perché se c’è una cosa che Freddie ha saputo fare è prendere il meglio del rap degli ultimi trent’anni – il gangsta rap, la trap più cupa, i tecnicismi e le rime a incastro della East Coast, i beat sperimentali e creativi – e farlo proprio, rendendo omaggio a tutte le sue influenze, ma mantenendo l’originalità che lo ha reso celebre. In effetti, la sua forza è proprio quella di non essere inquadrabile in un sottogenere preciso. Sarà che non viene da una delle classiche metropoli dalla lunga tradizione hip hop, ma da un posto dimenticato da Dio: Gary, una cittadina dell’Indiana con una popolazione all’80% afroamericana, nel cuore della cosiddetta “Rust Belt”, una zona così depressa e deindustrializzata che deve il suo nomignolo alla ruggine che ricopre ogni cosa.

Nonostante sia già la seconda volta che suona dalle nostre parti, Freddie Gibbs è senz’altro più famoso all’estero rispetto all’Italia, il che spiega il gran numero di stranieri che affollano Santeria Social Club a Milano. Anche i fan autoctoni, però, si difendono benissimo: il locale è decisamente pieno, e un coro entusiasta e preciso parte dalle prime file ogniqualvolta il rapper lascia in sospeso una barra, facendola chiudere al pubblico. La cosa non è scontata, perché nonostante sia un nome in continua ascesa fin dal 2009, anno in cui uscì il suo primo mixtape, si tratta comunque di un artista relativamente underground anche in America. Si dice che il motivo per cui non è ancora riuscito a emergere come merita sia da ricercare in parte nel suo caratteraccio, che non solo gli impedisce di scendere a compromessi, ma lo spinge anche a mettere l’orgoglio e l’integrità davanti a ogni cosa, anche a costo di litigare e mandare in vacca opportunità importanti e prestigiose. Di recente ha anche passato parecchie settimane in un carcere austriaco, con l’accusa di violenza sessuale (è stato poi assolto da ogni imputazione), cosa che ha contribuito ad alimentare la sua fama da personaggio rude e poco accomodante.

Nonostante diversi cambi di etichetta e di formazione, però, da qualche anno porta avanti un duraturo sodalizio con Madlib, produttore astratto ed etereo famoso per le sue collaborazioni con gente come Jay Dilla e MF Doom, che sulla carta non avrebbe proprio niente in comune con lui. Che ci fa un tamarro attaccabrighe dell’Indiana con un cerebrale musicista californiano, noto per il suo approccio sofisticato e zen alla vita? Eppure, il risultato è stato oltre ogni aspettativa: sia il loro primo disco congiunto, Piñata, del 2014, che il secondo, Bandana, uscito quest’anno, sono piccoli gioielli di contaminazione e creatività. Bandana, tra l’altro, è anche frutto dei continui ritardi e ripensamenti di Kanye West: buona parte delle produzioni di Madlib presenti nel disco sarebbero dovute finire in quello di Kanye, ma a furia di cambiare idea su tutto, il produttore si è stufato e ha preferito girare i beat al suo ex socio Gibbs, che ha scritto la maggioranza dei testi durante il suo soggiorno in prigione, a quanto racconta.

Gli estratti da Bandana e Piñata la fanno da padroni per buona parte del concerto: dall’energica Crime Pays alla lussureggiante Giannis, con il featuring di Anderson.Paak, fino alle ipnotiche Thuggin’ e Harold’s. Non mancano anche suoi brani precedenti, come Careless e 2 Legit, famose anche per campionare rispettivamente Amazing di George Michael e My Life di Mary J. Blige. Tra un pezzo e l’altro Freddie si diverte a massacrare il povero e compiacente dj, a cui ne dice di ogni – che puzza, che non scopa, che è stupido e cialtrone – e a ruggire a pieni polmoni FUCK THE POLICE!, seguito a ruota dal pubblico. Riesce a dominare il palco e a dare l’impressione di essere in forma smagliante anche se, si vocifera tra i beninformati, in realtà oggi non sta molto bene, cosa che si intuisce dal finale del concerto, quando abbandona bruscamente il palco dopo un frettoloso saluto, senza rientrare per il tradizionale bis. A questo punto viene davvero da chiedersi cosa sarebbe stato in grado di fare se fosse stato in condizioni fisiche ottimali. Probabilmente lo scopriremo la prossima volta che tornerà in Italia, speriamo presto.

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