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La terza giornata de La Prima Estate è stata la festa dei boomer, ed è andata benissimo così

I Bluvertigo, i Duran Duran, Morgan che fa quello che sa fare meglio (ossia suonare e cantare), le fan di Simon Le Bon e John Taylor in visibilio, pochi selfie e tanta nostalgia canaglia: a Lido di Camaiore sembrava di essere nel 1997, ed è stato bellissimo

Foto: Luigi Rizzo

“Non è servito a niente, trent’anni di oblio, trent’anni di idioti: tutti scemi, me compreso. Un popolo di coglioni”. La summa di Morgan arriva alla fine di Decadenza: correva l’anno 1995, i Bluvertigo erano stati gli anticipatori di ogni cosa che è poi successa – «troppi replicanti in televisione», mettici Instagram ed è uguale – e sul palco della terza serata de La Prima Estate il tempo sembra riavvolgersi. Morgan, Andy, Livio e Sergio sono in forma smagliante, con i tailleur di broccato, le camicie alla Lady Oscar, le cover di Bowie (Always Crashing in the Same Car), l’apertura con Finché saprai spiegarti: non ti rendi conto di quanto ti siano mancate certe band finché per un attimo non le riassaggi, e pensi che alcuni artisti solo quello dovrebbero fare, suonare e cantare. Perché è ciò che gli riesce meglio e che nessun altro è (ed è stato) capace di fare in quel modo lì: profetico.

Il pubblico li ama ancora, non si perde troppo dietro agli smartphone, canta e balla un mix che arriva da Acidi e basi, Metallo non metallo, Zero – ovvero la famosa nevicata dell’85: Le arti dei miscugli; L’assenzio; Complicità; Sono=sono; La crisi; Cieli neri. C’è spazio anche per un po’ di mitomania – «Come Dante e Virgilio, i Bluvertigo e i Duran Duran», che non è chiarissimo chi sia chi e in fondo non è così importante – ma gliela si perdona come la si perdona a una simpatica canaglia. La domanda che ci poniamo, mentre i nostri concludono con Altre f.d.v. e Zero (“A certe cose che dici non pensi neanche, e se sei nervoso è solo perché vivi in città”, pare scritta l’altro ieri) è il dilemma nostalgico in cui ci incastriamo puntualmente noi boomer, anzi, noi Generazione X: li rivorremmo oggi, i Bluvertigo? E se da un lato la risposta più scontata è «ovviamente, chiaramente», dietro s’insinua il dubbio che forse è giusto tenerli cristallizzati lì, nella fine del Ventesimo secolo, con le loro capacità premonitorie grazie a cui hanno saputo immaginare il Ventunesimo.

Foto: Luigi Rizzo

 

Foto: Luigi Rizzo

“Anche il solo dire ‘io’ è un messaggio, senza un’idea non ci si alza dal letto, purtroppo”, e stamattina ci siamo alzati dal letto con l’idea di rivivere un’epoca che sì, non tornerà più, ma che è capace di emozionarci e di farci dire «Cazzo che bravi, guarda come si divertono». Un’ora di Bluvertigo e poi, con una puntualità svizzera (nota a margine: un plauso all’organizzazione, al sonoro, agli effetti visivi, al palco. Forse gli italiani hanno finalmente imparato come si fa a fare un festival musicale decente?), è il turno delle star della serata, i Duran Duran. Ci sono le signore che si sono fatte accompagnare dal marito (o magari il contrario), le fan dell’epoca che le sanno tutte («Chi era il suo preferito, Simon Le Bon?», «No no, io il batterista», «Io John Taylor»; «Io quello che suona… come si chiamano? Le tastiere»), l’età media è visibilmente più alta e il fastidioso show-off tipico di tanti concerti è assente: non devo urlare su Instagram che sono davanti ai ragazzi di Birmingham, devo soltanto urlare «Wild boys fallen far from glory, reckless and so hungered».

Nick Rhodes, John Taylor, Roger Taylor e Simon Le Bon sono inarrestabili, ci deliziano con un’ora e tre quarti di musica senza soluzione di continuità, trasudano vitalità, hanno la tempra di chi sa fare il proprio mestiere e con gli anni non ha affatto disimparato. Nell’anno del quarantesimo anniversario di Rio, si parte con The Wild Boys, Invisible, A View to a Kill, Notorious, Union of the Snake. Su Come Undone le mani si alzano verso il cielo e ondeggiano a tempo, qualcuno non smette di gridare «Simoneee!», poi è il turno di The Reflex, Friends of Mine, e di una struggente Ordinary World dedicata all’Ucraina, l’unico messaggio politico-pacifista che Simon Le Bon e soci si (e ci) concedono. Da Planet Earth a Hold Back the Rain il passo è breve, soprattutto se s’atterra su Hungry Like the Wolf e su quel “In touch with the ground, I’m on the hunt I’m after you” che sembra l’inno di battaglia di chi era adolescente nel 1982. La prima parte d’esibizione si chiude con Girls on Film con il ritornello che mescola Acceptable in the 80s di Calvin Harris, ché «It was acceptable in the 80s, it was acceptable at the time», meglio contestualizzare onde evitare la promozione di pericolosi stereotipi sessisti.

Foto: Luigi Rizzo

 

Foto: Luigi Rizzo

«Fatesce balla’, che poi nun se balla più» strillano le fan; «Te sai fischia’?», «No mi spiace», «Ma mo’ escono , nun te preoccupa’»: e vuoi che non escano per un bis, vuoi che ci mandino a casa senza Save a Prayer e senza Rio? “Her name is Rio and she dances on the sand”: esattamente come noi, che in quel momento siamo tutti Rio, e balliamo sulla sabbia proprio come quel fiume che scorre attraverso la terra polverosa, e abbiamo quaranta, cinquanta, sessant’anni, e accidenti, come ce li portiamo bene.

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