«Vuoi questo asciugamano?», chiede Nikki Sixx a una ragazza delle prime file verso metà del set con cui i suoi Mötley Crüe si apprestano a conquistare l’ultimo grande stadio di questo celebrato tour statunitense, l’Allegiant di Las Vegas. «Ho l’impressione che si tratti di un asciugamano uguale a quello che ho dato a tua madre nel 1987».
Lo spirito che pervade il quartier generale dei Raiders la sera del 9 settembre è esattamente quello che ci si poteva aspettare da una line-up che incarna tutti i cliché dell’hair metal o glam rock che dir si voglia. Insieme ai Mötley Crüe ci sono infatti i Def Leppard, i Poison e Joan Jett & The Blackhearts, ovvero la summa di tutte le sonorità che impazzavano in ambito rock prima dell’avvento del grunge. Oltre a loro, i giovanissimi Classless Act. Con i Poison, in particolare, sembra che il tempo si sia fermato proprio al 1987: la band di Bret Michaels è in forma e brani come Look What The Cat Dragged In, Talk Dirty to Me e Fallen Angel fanno venire la febbre degli Eighties ai tanti nostalgici di quel periodo ma anche a chi non ha i requisiti minimi d’età per definirsi tale e che quindi si accontenta di idealizzarlo (Stranger Things docet).
Il pubblico è in effetti il più eterogeneo possibile e accanto agli immancabili rocker in spandex, stivali e capelli cotonati, alle ragazze in minigonna di pelle e borchie o catsuit leopardata, a un esercito di biker e a pittoreschi personaggi fasciati di Union Jack in onore ai Def Leppard, troviamo famiglie intere in libera uscita e tanta gente mossa unicamente dalla curiosità per uno dei maggiori eventi live di quest’anno.
Già da quando i Classless Act entrano in scena, si capisce subito che il mood della serata dev’essere quello di spegnere il cervello, lasciarsi andare e godersi la musica senza troppe menate. Il quintetto losangelino, in cui spicca la presenza del cantante Derek Day, un vero animale da palco, nei pochi minuti a propria disposizione conferma che la crescita esponenziale a cui è andato incontro negli ultimi mesi non è frutto del caso, e si congeda dopo una terremotante versione di quello che è già un loro cavallo di battaglia, intitolato proprio Classless Act (che nella sua versione in studio include un’ospitata da parte del frontman dei Crüe Vince Neil).
Tra un set e l’altro torniamo nelle retrovie a riprendere fiato e avvertiamo subito la dicotomia tra quello che avviene davanti e dietro al palco. Davanti si celebra l’epopea del rock in tutta la sua magniloquenza, dietro è la perfetta antitesi di quello che la gente comune si aspetterebbe dal backstage di un concerto come questo: corridoi lunghi e asettici portano agli uffici della produzione e ai camerini delle band, tutto sembra in ordine, pulito, ordinato, silenzioso. Al catering dominano carni bianche e verdure, cibi vegani e senza glutine. Niente alcol. Incrociamo i Def Leppard al gran completo, Tommy Lee che arriva con la moglie a bordo di un golf cart, i figli dei vari musicisti che girano con le tate. Ci fermiamo a salutare Joan Jett dopo il suo soundcheck, per poi godercela con i Blackhearts in un tripudio di vecchi successi come Bad Reputation, brani delle Runaways (Cherry Bomb, You Drive Me Wild) e ovviamente cover fatte sue come l’intramontabile I Love Rock ‘n’ Roll (originariamente degli Arrows). A un certo punto scorgiamo Rick Harrison, star della serie Pawn Stars/Affari di famiglia, che è qui per introdurre sul palco i Poison (o forse introduce i Poison perché è qui, chi lo sa). Anche lui sembra divertirsi parecchio, e in effetti, proprio con i Poison, una party band in tutto e per tutto, l’atmosfera si surriscalda e la giornata entra nel vivo, come si evince anche dalle presenze sugli spalti e nel parterre, che da qui in poi cominciano a riempirsi.
Assistere a un evento di queste dimensioni, a più di 30 anni da quella che viene considerata l’epoca di massimo splendore del genere, è sorprendente. E dire che i critici musicali con la puzza sotto il naso queste band le mettono continuamente alla gogna da quando il cosiddetto rock alternativo le ha scalzate dalle classifiche. Dei due headliner, i Def Leppard sono quelli che offrono le maggiori garanzie in termini di resa musicale: questa sera suonano prima dei Mötley Crüe (il tempo a disposizione è lo stesso ma a seconda della data chiudono gli uni o gli altri) e gli inglesi mettono in piedi il solito spettacolo bombastico, hit dopo hit. Qualunque sia il credo musicale di ognuno, resistere ai travolgenti ritornelli di Let It Go, Hysteria, Rock of Ages o Armageddon It può solo essere spiegato come un atto di sovversione. In effetti, ci guardiamo intorno e cantano anche i muri. Joe Elliott e Phil Collen tengono ben salde le redini di una band che, prima di tutto, dà ancora l’impressione di sapersi divertire sul palco. E la cosa si avverte. C’è anche spazio per un omaggio alla regina Elisabetta, deceduta soltanto il giorno prima. I Leppard le dedicano This Guitar, commentando così: «Non abbiamo nessuna canzone che si adatti a circostanze come questa, ma vogliamo comunque dedicare un brano alla memoria della regina Elisabetta II, nostra sovrana per 70 anni. Dio la benedica…».
Con i Mötley Crüe, invece, le premesse sono ben diverse: i bad boys di Los Angeles devono parte della loro fama anche a tutto il gossip e alle polemiche che si portano dietro da sempre. E gli ultimi anni sono stati assolutamente all’altezza del loro passato: prima l’annuncio del tour che doveva essere quello finale (The Final Tour, appunto, andato in scena dal 2014 al 2016), poi il controverso film uscito su Netflix e, infine, la conferma che sarebbero tornati sui palchi nonostante la messinscena del contratto di stop firmato di fronte alla stampa. Nel frattempo, le polemiche sulla forma fisica e vocale di Vince Neil e i problemi familiari di Tommy Lee facevano il resto.
La verità è che, piaccia o no, questa band funziona proprio così com’è. Prendere o lasciare. Lo rimarca Sixx durante il suo consueto intervento di metà concerto («Ce ne freghiamo se a qualcuno non piace quello che rappresentiamo, i Mötley Crüe non si possono cancellare») e lo riprende Tommy poco dopo, quando dalla sua batteria (su cui troneggia l’immagine commemorativa di Taylor Hawkins) scende al centro del palco e, prendendo spunto dalla dick pic postata su Instagram qualche settimana fa, ovviamente diventata virale prima di essere rimossa dalla piattaforma, invita il pubblico, uomini e donne indistintamente, ad esibire la propria “mercanzia” (con buona pace di chi ha deciso che questi concerti erano da certificare come all ages). Il batterista conclude poi il suo intervento con un annuncio: «Sono andato a cercare un posto dove poter essere libero e dove si può mostrare ciò che si vuole senza censura». E dopo essersi calato le braghe si gira e mostra a tutto lo stadio la scritta “Only Fans” impressa sulle chiappe. E dire che canzoni leggendarie come Kickstart My Heart, Girls, Girls, Girls o Shout at the Devil, ma anche brani più recenti come Saints of Los Angeles o The Dirt (Est. 1981), quest’ultimo in collaborazione con Machine Gun Kelly, potrebbero tranquillamente brillare di luce propria.
Quando usciamo dallo stadio, un gioiello architettonico nuovissimo, chiuso e climatizzato, e ci riversiamo nelle roventi strade di Las Vegas (settembre è ancora un mese molto caldo da queste parti), ci sembra di essere tornati da un altro universo: intorno a noi ci sono i club alla moda dello Strip, vediamo i manifesti dei pool party con Steve Aoki e i tabelloni luminosi del concerto di Kendrick Lamar, che si esibisce proprio lì a fianco, mentre dai locali che si affacciano sulle strade fuoriescono beat elettronici martellanti. Una DeLorean immaginaria ci ha riportati nel 2022. E un po’ ci dispiace.