Heroes – Il futuro comincia adesso sarà ricordato come qualcosa di più dell’evento musicale che ha sdoganato definitivamente le scarpe col plateau maschili e l’inutilità dei conduttori ambosesso. Il titolo dello show è un omaggio al brano di David Bowie che, ovviamente, non va riferito ai cantanti che si esibivano, ma agli artisti emergenti e ai lavoratori intermittenti dell’industria musicale che beneficeranno, tramite il fondo Covid-19 Sosteniamo la musica, del prezzo dei biglietti virtuali.
Heroes è stato e sarà per sempre il Festivalbar dei nati dopo il 1995. Questo non solo per elementi come l’uso smaliziato di basi musicali e vocali o la straordinaria coincidenza spaziotemporale con la finalissima del Festivalbar, che si è tradizionalmente svolta ai primi di settembre, proprio nella stessa Arena di Verona di tante, intense sessioni di ludi romani, delle stagioni liriche, dei Seat Music Awards e, adesso, anche di Heroes.
Ieri la musica smaterializzata da Spotify si è personificata nuovamente, sponsorizzata da Spotify, con la potenza di fuoco delle grandi occasioni: il palco a 360° dell’Arena, con quei tralicci solenni che sembrano colonne tortili di San Pietro allisciate, soprattutto nelle inquadrature da drone, sembrava davvero la Mecca dell’indie italiano.
Heroes si è svolto secondo un format innovativo che è stato sì frutto di esigenze sanitarie, ma è riuscito particolarmente bene nel suo compito perché di quelle esigenze sanitarie ha saputo fare una scusa per affrontare un problema ancora più profondo della prevenzione del coronavirus: la saudade del mixtape. Essa — che affligge in scioltezza anche e soprattutto chi non ha mai toccato una musicassetta — si traduce in un desiderio atavico di una realtà playlistiforme, di cui la kermesse ideata da Vittorio Salvetti è la madre certa e il cazzeggio, l’avversione per i concept album, il disimpegno verso qualunque forma di unità di senso, i possibili padri. Oltre le cornici narrative e le vane competizioni imposte dalla televisione, evviva la ciccia, per un pubblico che preferisce l’eclettismo dei generi e dei livelli di dignità e la variatio a tutti i costi ai climax tipici dal più scarso al più atteso, dal più cafone al più romantico; con alternarsi di pezzi lenti e poi veloci, poi di nuovo lenti mortali. L’algoritmo lo vuole.
Se il Festival di Sanremo e la rappresentazione della musica in televisione, per come lo conosciamo (X Factor non si senta al sicuro), sono destinati, presto o tardi, ad ardere in un bel falò, questo Heroes, primo evento musicale ideato per lo streaming, è il pezzetto di diavolina che dà fuoco al primo tizzone. Il fatto è che il primo evento musicale italiano nativo digitale è stato progettato ed eseguito come l’unico possibile Sanremo per la Generazione Z: la spettacolarizzazione della musica su misura per chi non vuole una misura. Zero parole, molte emozioni. Solo sudore e canzoni, in un pornazzo musicale senza dialoghi come forse non si è mai visto e sentito. Un feed di 34 artisti, di cui molti con almeno due pezzi a testa, e pause ridicole (sia per durata che, purtroppo, per contenuto) tra i blocchi.
Heroes non andrebbe collocato nella tradizione dei concerti e molto probabilmente non sarà una pietra miliare della storia della musica dal vivo. Ieri è stato chiaro fin da subito, infatti, che non fossimo davanti a una possibile exit strategy dal mondo dei live. Dopo la lunghissima diretta, anche i più pigri e sociopatici tra noi non facevano altro che desiderare più forte che mai un vero live post lockdown. Questo anche perché, con tutto il rispetto per i feticisti della realtà virtuale, Heroes sta anche solo a un concertone del Primo maggio come si deve come una scopata sta a un sessione di cinque ore di virtual sex suit. Non può curare quella mancanza, ma solo riattizzarla, come una grossa dose low cost di droga leggera non potrà mai davvero affrancarci dai vizi più pesanti di cui siamo portatori insani da una vita. Heroes vuol dire però moltissimo se collocato nella storia della trasmissione televisiva di manifestazioni canore, quella che va da Canzonissima a Festivalbar, passando per Sanremo.
Non c’erano siparietti, presentatori e spot di estrazione florovivaistica del luogo in cui l’evento si svolgeva. Ciascuno dei musicisti, se lo voleva, poteva essere valletta di se stesso, oppure cantare e basta. I featuring potevano essere quelli d’ordinanza del brano in questione, oppure improvvisati per l’occasione. Qualcuno, come Nitro, ha infilato nel suo spazio un brano imprevisto. Ciascuno poteva fare un pezzo nuovo, un vecchio cavallo di battaglia, un inedito che sarebbe uscito a fine serata come i Selton, una cover di Battiato o un omaggio ululante a Ennio Morricone (come Diodato, che ha bissato tra un’ovazione reale e una virtuale quello dei Nastri d’Argento).
Heroes non sembrava quasi organizzato, ma piuttosto compilato. Dietro le scelte per la line-up e i blocchi non c’era l’ansia da classifica, ma solo l’estro del curatore, il trionfo delle scelte senza senso se non nelle orecchie di chi ascolta. Una serata fatta per chi non ha voglia di farsi dire cosa, quando e come ascoltare la musica ma solo di schiacciare play e pausa, raramente stop e già la funzione di mettere in coda sembra una cosa da vecchi: si skippa o si looppa, non si aspetta.
I più grandi assenti non erano dunque Calcutta, Cosmo o Carl Brave, ma Amadeus e più di tutti Cattelan, che pure da qualche parte delle dorsali oceaniche si sarà aggirato come una strega malefica. Gli intrusi straordinari sono stati, invece, gruppi come gli Afterhours, il cui Manuel Agnelli, a torso nudo da novello Iggy Pop, è stato il solo fra tutti gli artisti a trovare il tempo di arringare il pubblico sul vero tema della serata: «La musica è un lavoro: potete viverla a modo vostro, emotivamente, profondi e superficiali ma dovete rendervi conto che dietro il vostro divertimento ci sono migliaia di lavoratori che durante il lockdown sono rimasti a casa». Manuel, che non aveva i capelli da quarantena (li ha sempre avuti), ne esibiva però gli addominali (frutto di mesi di Savate, o French Boxing) e giustamente era orgoglioso.
Achille Lauro e Annalisa, insieme, hanno rappresentato l’emblema perfetto di questi accostamenti risqué di canoro e performativo, corpo e costume, amor sacro e amore profano della musica pop contemporanea che a Sanremo si erano guardati negli occhi senza sfiorarsi e ieri, mentre eseguivano Sweet Dreams, finalmente si sono toccati, generando reazioni di scomposto shipping anche presso i fan più tiepidi.
C’erano più palchi virtuali, fruibili tramite sito web o app. Gli unici degni di questo nome erano il Main Stage e la Creator’s Room, con dentro una Margherita Vicario multiuso e lanciatissima che, in attesa del suo turno sul palco — dove avrebbe fatto ben tre pezzi — era al centro di una gang bang di star di TokTok. Della modalità immersive tacciamo, per rispetto dei masochisti. Per il resto, buona fortuna a rimorchiare nella sezione community, ma mai dire mai.
Fortuna che c’era il backstage da casa. Il vero vantaggio dello streaming è che democratizza la musica che piace ai giovani in direzioni inattese. La vita quotidiana domestica sostituiva la calca. Gli accendigas sostituivano gli accendini. Le storie Instagram divulgano questo mondo altrimenti sommerso. C’è la madre di famiglia che esclama, all’esibizione di Achille Lauro: «ma questa è la canzone degli Euronics!». Ci sono fratelli maggiori sagaci che danno finalmente un volto a Willie Peyote, piacevolmente sorpresi dal suo look da direttore editoriale di piccola o media casa editrice. Padri che intimano di non provarci neanche a chromecastare dall’app, ché ha speso 10 euro per questa cosa e ora se la vuole vedere. Le corse al cavo HDMI da strappare tipo eutanasia al decoder Sky, un minuto prima della diretta. Gli adattatori da USB C a VGA che volano da una parte all’altra del salotto. Il dramma è che, ogni volta che cambi palco, ci entri senza audio. È facile allora che la nonna si incazzi, perché il suo Mahmood è muto e non è che con quelle chunky sneakers sia un bel vedere.
Gli intermezzi con gli attori che presentano i 17 obiettivi dello Sviluppo sostenibile di Agenda 2030 erano così fastidiosi e poco ispirati e curati (Andrea Bosca dirà “Costruire infrastrutture resistenti”, invece di resilienti. Hanno letto ma non hanno riletto) da sostituire di fatto, in un solo colpo, pubblicità e siparietti. Ma Heroes è stato un esperimento e non possiamo che perdonargli questi errori di vecchiaia. I flussi dei selfie non finivano, purtroppo, il loro ciclo vitale una volta ostentati sul ledwall del palco o sulla sidebar degli stage virtuali; ma, a volte, ritornavano, con casi di doppione anche nella stessa schermata. L’impressione è che la funzione selfie sia stata del tutto bypassata dal pubblico realmente in target e lasciata in balìa della minoranza boomer perché si distraesse e li lasciasse in pace ad aspettare Salmo, ballare e cantare, come in una speciale maratona di Just Dance dedicata all’indie e live.
Lo stesso vale per le ridicole funzioni interattive per gli applausi e i balletti virtuali, che sembravano pensate da project manager in odore di pensionamento per venire incontro alle supposte, ridotte facoltà mentali dei loro nipotini. I quali, per loro fortuna, hanno un range espressivo ben più ampio di quei cinque o sei pulsanti, notoriamente più vicino al totale delle emoji codificate. Questo contrastava in maniera quasi comica sia con la straordinaria freschezza telegenica del pubblico sugli spalti dell’Arena. Era come se avessero operato una selezione all’ingresso facendo entrare solo gente con almeno un grammo di presobenismo per litro di sangue.
A parte questo, l’unica grande pecca di Heroes è che Franco126 non viene, di fatto, trasmesso: la sua esibizione è stata saltata a piè pari dallo streaming, per problemi tecnici. Nessuno che spieghi al pubblico pagante del Main Stage cosa sia successo. Nessuno che dica neppure, semplicemente: il bello della diretta. Male, molto male perché, in questo caso, l’assenza di un conduttore qualsivoglia si è fatta sentire eccome, rischiando di dare ragione per una volta ai boomer. Un altro piccolo, medio difetto è che nessuno degli artisti sfrutta in qualche modo site-specific da palco virtuale il mezzo a loro disposizione. Moltissimi si limitano a dichiarare: “Ciao Verona” al pubblico ridotto e distanziato degli spalti.
Gli highlight assoluti — e non ce ne voglia Gaia, che affronta con sicurezza da concertista consumata, nonostante la sua giovane esperienza, il più sontuoso underboob della storia italiana, tanto che a tratti sconfinava nella pericolosissima bonus track di un sideboob — sono Ghemon coi capelli post-quarantena e l’oufit da banda della Magliana chic; l’esplosione (finalmente!) della piccola, meravigliosa Anna, al termine di una miccia lunga tutto il lockdown. Quello che perde sempre è l’affettazione: la bandana arrotolata di Tommaso Paradiso (che, a sorpresa, fa solo un pezzo, ma del resto ne ha fatto solo uno decente da quando è solista); gli occhiali da sole serali di Gazzelle, che per fortuna toglierà per il featuring con gli Zero Assoluto.
Vince tutto ciò che mostra la realtà infrangere il mure del digitale: l’herpes labiale di Aiello, il Brunori polistrumentista, e infine, soprattuto, stravince il sudore delle grandi occasioni, vero e grondante, che nessuna webcam potrà mai virtualizzare abbastanza, di Cristiano Godano dei Marlene Kuntz. Inizialmente sembrava un pesce fuor d’acqua, ma presto capisci che era lì per divulgare qualcosa del senso di un concerto a qualcuno degli ascoltatori più giovani, che magari non sono mai andati a un concerto o sono andati solo a un concerto di Fedez. Altrimenti è come iniziare a fumare a 16 anni direttamente con la IQOS.