In un settore come quello musica pieno di budget sperperati per progetti discutibili, gli investimenti su Mahmood pagano, oltre che a livello di pubblico anche e soprattutto a livello artistico. È questo l’aspetto che più emerge alla prima delle due date dell’artista al Forum di Milano, tra scenografie con il light design di Douglas Green, i visual di Tommaso Ottomano, le coreografie di Carlos Diaz Gandia, e l’alta moda presente in ogni dove, persino sull’asta customizzata da Lichene per Angostura con tanto di gioiello per microfono. In un certo senso questa spacconaggine (non fine a se stessa, sia chiaro, ma del tipo «ok ho un budget alto, lo spendo per fare uno dei pochi spettacoli italiani all’altezza del mercato pop internazionale») si sposa bene con uno dei lati di Mahmood, ovvero la sicurezza di sé, cresciuta gradualmente negli anni fino a trasformare il timido ragazzo – «il ragazzo… Mahmood», come diceva Ultimo – nel leader di un corpo di ballerini guerrieri che potrebbe insegnare a mezza Europa come fare musica pop di livello.
Una sicurezza la cui ostentazione proviene direttamente dal contesto della periferia milanese, quella dove fa molto caldo e dove serve parecchia personalità per stare nel quartiere, e dalla quale è emersa l’attitudine dell’hip hop prima e della trap milanesi poi, di cui Mahmood condivide la fame, le frequentazioni e (più che altro agli esordi) alcune sonorità. La differenza è che Mahmood ha un’infinità di altri aspetti in più da mostrare e raccontare, che vengono passati in rassegna nel corso di un concerto che restituisce, a cinque anni da Gioventù bruciata, il percorso artistico di Mahmood in tutta la sua coerente eterogeneità.
Il concerto inizia con la giusta dose attitudine dopo un breve intro visual: il corpo di ballo si prepara per la battaglia e accoglie il condottiero che scende in elegante outfit Prada da una scalinata in metallo – a forma di piramide – collocata al centro del palco. Seguono Bakugo e Klan, giusto per mettere le cose in chiaro. Dopo aver aperto il fuoco, la band raggiunge Mahmood e il corpo di ballo va a riposo: è il momento di una carrellata di brani in cui emerge il lato sensibile di Mahmood, quello delle melodie, degli organi Hammond, delle ballad e delle lacrime (Tutti contro tutti, Nei letti degli altri, Paradiso, Inuyasha e Brividi) che da anni fanno da contraltare a drop e aggressività e al contempo esaltano le abilità di songwriting di Mahmood che oltre che paladino dell’urban e popstar è sempre stato anche un ottimo cantautore nel senso italiano del termine.
Dopo questa carrellata di downtempo è il momento per Mahmood di cambiare outfit, indossare la durag e lasciar emergere il sole lisergico del Sahara richiamando sul palco il corpo di ballo, che rimane nell’ombra a fare da sfondo al miraggio mediterraneo di Sabri Ailel. Seguono Ghettolimpo e Neve, forse penalizzate dalla posizione in scaletta – l’impatto di Sabri Ailel ha i suoi svantaggi – e un medley per gli ormoni in cui il corpo di ballo e Mahmood la combinano grossissima per otto minuti abbondanti su Dorado, Proibito e Talata. Il momento slay continua con Personale e Overdose, per poi lasciare nuovamente spazio alla tenerezza. Arriva infatti il terzetto forse più emozionante di tutto lo spettacolo, attraverso il quale Mahmood celebra le sue radici sarde (T’amo), egiziane e milanesi (Il Nilo nel Naviglio), oltre che il suo rapporto con i genitori (la madre è evocata in T’amo, il padre riecheggiato ne Il Nilo nel Naviglio e ucciso freudianamente nella successiva Stella cadente).
L’intimità di questo momento identitario è enfatizzata dal fatto che questi tre brani siano eseguiti da Mahmood al piano, sospeso al centro del palco grazie a un supporto meccanico per tastiera disegnato da Type-Ten, direttore creativo dello show. Non ha suonato strumenti prima, non ne suonerà a seguire: la simbologia, in uno spettacolo così organizzato, serve anche a comunicare la funzione dei brani nel racconto complessivo.
Terzo cambio outfit – un custom made di Willy Chavarria con durag rossa – e altro momento emotional che si conclude con l’ovazione di Rapide (prima Nel tuo mare e Cocktail d’amore) e, a seguire, la vestizione del sovrano: uno dei ballerini spoglia Mahmood della durag rossa per porgergli un mantello nero. Sul palco si presenta così la regina: è il momento di Angèle vestita in total red per la collaborazione, Sempre. Salutata l’artista belga, tornano sul palco i ballerini per il rush finale con il medley di Barrio e Kobra e la tripletta di hit Ratata, Soldi e Tuta gold: tre ceffoni nei denti per mandare tutti a casa, perché il bis e gli encore da un po’ di tempo fortunatamente non vanno più di moda.
Senza abbandonarsi a celebrazioni eccessive, che tanto hanno a che vedere con i gusti, si possono spendere tante buone parole anche semplicemente constatando alcuni dati oggettivi. Intanto la preparazione e l’organizzazione dello spettacolo che raggiunge livelli di professionismo con pochi eguali in Italia: ogni dettaglio è frutto di ossessione, perfezionismo e desiderio di disputare un campionato che va ben oltre ai nostri confini nazionali anche sul fronte performativo. Inoltre la dialettica tra ciò che si vede e ciò che si sente, ovvero tra spettacolo visivo (luci, proiezioni, coreografie, outfit, scenografie) e musica, è impeccabile, segno che probabilmente per Mahmood la composizione dei brani include anche l’immaginazione visiva, fin dalle fasi embrionali, con narrazioni organiche ideate per inserire i brani in strutture più ampie. Con un po’ di malizia “storiografica” si può rintracciare l’origine di questa passione per l’ampia struttura nella natura circolare dei miti ellenici che sono passione dichiarata e fonte nota di molta musica di Mahmood.
Mahmood realizzando questo spettacolo è riuscito a raggiungere una sintesi di sé stesso capace di conferire coerenza e unità agli stimoli molto diversi tra loro che ne hanno caratterizzato la carriera, riuscendo finalmente a comunicarla al pubblico. Mahmood si è affacciato nel panorama mainstream nei panni strettissimi di “secondogenerazionista” post trap che faceva arrabbiare il Salvini-prime per la sua vittoria a Sanremo con una strofa in arabo su una base di Charlie Charles, per poi affermarsi di fatto come cantautore con il vizio dell’urban, scrivendo alcune delle canzoni più belle che il mainstream italiano abbia avuto negli ultimi anni. I due aspetti dialogavano poco tra di loro, e sembrava che dovesse ancora scegliere da che parte stare. Mahmood ha risposto pazientemente a tutti i tentativi di stereotipizzazione – inclusa quella successiva di icona gay – attraverso la musica, lavorando in profondità per dare spessore alle suggestioni dei primi brani. E così il secondogenerazionismo che gli avevamo incollato addosso si è svelato essere un interesse esistenziale e identitario per la musica delle sue radici, che a volte sfocia in una sorta di etnomusicologia del pop contemporaneo, e la sua capacità di far convivere tamarraggine urban e sensibilità cantautorale sta raggiungendo quelle vette di naturalezza che consentono la codificazione di uno stile spiccatamente personale, che trascende le limitazioni della musica di genere.
Questo lungo percorso ha fatto sì che nella stessa sera si possa passare dal deserto del Sahara alla periferia di Milano Nord, dalle campagne sarde al Teatro Ariston, dall’introspezione urban figlia di un Frank Ocean allo slaying di una Nathy Peluso. Tutto in uno, fluidamente, senza annoiarsi mai e senza scetticismi o perplessità. Mahmood al momento è forse l’unica popstar italiana che non sfigurerebbe alla cerimonia dei Grammy e che, al contrario, avrebbe molto da insegnare anche in quella terra piena di maestri del pop: teniamocelo stretto e, come dicevano i fan del Salvini-prime di cui sopra, lasciamolo lavorare.