Ci sono musicisti che suonano per immagini. Canzoni come sceneggiature, strofe come inquadrature. Mark Knopfler è un intellettuale prestato al rock che usa le Gibson Les Paul e le Fender Stratocaster per raccontare storie e creare atmosfere e gli bastano due cascate di note pizzicate con l’antico stile “fingerpicking” dei bluesmen che lui ha mostrato al mondo e l’intro strumentale del primo pezzo in scaletta, Why Aye Man, per accendere lo schermo e portare via tutti, trasformando persino il Forum di Milano in un luogo affascinante. Mark Knopfler arriva in Italia con il tour Down the Road Wherever e porta l’immaginazione al potere.
Suona per due ore ma potrebbero essere otto, e ti lascia con il desiderio di andare a immergerti nel sound di una band di dieci elementi che suona con la precisione e l’ampiezza di un’orchestra in una delle suggestive location all’aperto delle sue prossime date: 13 luglio in Piazza Napoleone a Lucca, 17 alla Palazzina di caccia di Stupinigi a Torino, 18 all’Arena della Regina di Cattolica, 20 e 21 luglio alle Terme di Caracalla e il 22 all’Arena di Verona.
La scaletta è un punto di forza: Mark Knopfler non ha bisogno di inserire tante canzoni dei Dire Straits (alla fine sono sette su diciassette) e nemmeno le hit (a parte Money For Nothing nei bis) perché ha troppe storie da raccontare, troppi viaggi musicali solitari da condividere. «Le mie canzoni sono fatte per essere suonate dal vivo» ha detto una volta, «Amo il processo di scriverle da solo e registrarle con la band, ma la parte migliore sta nell’eseguirle davanti al pubblico».
Parte dal country-folk di Why Aye Man del 2002, poi prende una Gibson nera e un bottleneck e va nel rockabilly di Corned Beef City, dissolve tutto nell’elegia di Sailing to Philadelphia scritta insieme a James Taylor e infine entra nel western alla Sergio Leone di Once Upon a Time in the West impreziosita da un bellissimo arrangiamento di fiati in stile Stax.
Dialoga con una band equilibrata e solenne, schierata in linea sul palco come a sollevare fisicamente la sua voce e la sua chitarra, guidata dal fenomenale Mike McGoldrick (capace di passare dal violino al banjo al flauto traverso) e dalla batteria essenziale di Ian Thomas e per questo può fare tutto, permettendosi anche le divagazioni latineggianti di Postcards from Paraguay o il suono da night di Your Latest Trick.
Per il resto, Mark Knopfler è una specie di Emilio Salgari che viaggia con la mente senza mai muoversi: prima è a Nashville o in una fiera di paese in Arizona, un attimo dopo in un pub di Belfast dopo l’orario di chiusura ad ascoltare vecchie ballad folk irlandesi, poi al Birdland di New York sulle note di un assolo di tromba.
Scene di un film messe una accanto all’altra (come in Making Movies, con cui nel 1980 i Dire Straits sono arrivati per la prima volta al n.1 in classifica in Italia) e tante storie sentimentali, perché Mark Knopfler è un autore che parla di amore. Raffinato, quasi sempre infelice, sospeso tra speranza e ricordo. Quando imbraccia la Dobro per fare l’arpeggio iniziale di Romeo and Juliet, che in fondo è una ballad, il pubblico esplode.
Le suite musicali di Mark Knopfler non sono mai state commerciali ma hanno avuto un successo pazzesco. È lo splendido paradosso della sua carriera: uno studioso della musica popolare inglese e americana che dalla remota Newcastle ha attraversato tutti i generi passando dal folk al pop elettronico, attirando l’attenzione di Bob Dylan – che lo vede suonare a Los Angeles e lo vuole in Slow Train Coming del 1979 – e collaborando con tutti, da Van Morrison al suo idolo Chet Atkins, un esteta della chitarra (come dice lui stesso guardando una delle sue: “I like all guitars”) che suonava per passione in una band nata per caso nei pub, non ha mai guardato alla classifica ma in classifica ci è finito sempre dominando gli anni ’80 con i Dire Straits. Si dice che nel 1985 tutti quelli che hanno comprato uno dei nuovi lettori CD avevano a casa anche una copia di Brothers in Arms dei Dire Straits, il monumento da 30 milioni di copie con quella copertina iconica in cui una bellissima Risonator National del 1937, tutta in metallo luccicante, vola in un cielo azzurro e rosa.
Immerso nel suono cristallino delle sue chitarre vintage, Mark Knopfler ha passato la vita a cercare un punto di contatto tra il pubblico e il suo suono, e ci è riuscito con semplicità e umiltà facendo quello che gli riesce meglio, raccontando e trascendendo il quotidiano. Qualcuno nel pubblico si chiede: «Quante storie avrà da raccontare?» e lui ne racconta subito una prima di Matchstick Man dal suo ultimo album Down the Road Wherever del 2018: «Si intitola “Autostop a Natale”» dice in italiano, «Quando ero giovane attraversavo l’Europa in autostop, sono andato fino in Grecia passando da Brindisi. Ma una volta mi sono ritrovato nel sud dell’Inghilterra a fare autostop per tornare a casa a Newcastle la notte di Natale. Un camionista mi ha lasciato a una rotonda in mezzo alla neve, non c’era nessuno e avevo solo la mia chitarra da quattro soldi. In quel momento ho capito che quello che volevo fare era scrivere canzoni».
Mark Knofler è la dimostrazione che la classe è un super potere che permette di plasmare la materia musicale a piacimento. Dopo due ore di immagini sonore è la poesia malinconica di Brothers in Arms, la più atipica delle hit, a far alzare in piedi il pubblico. Ma come ultimo pezzo, guarda caso, Mark Knopfler sceglie Going Home, la sua prima colonna sonora del 1983, che è anche la canzone suonata allo stadio prima di ogni partita del Newcastle, la sua squadra. Perché alla fine ogni viaggiatore torna sempre a casa.