È un piccolo capolavoro di misticismo logistico il fatto che l’apertura del tour 2023 di Max Gazzè (Amor Fabulas – Preludio) sia slittata fino ad aver luogo sabato 28 ottobre proprio al teatro Lyrick di Assisi, esattamente a metà strada tra la Basilica di San Francesco e quella di Santa Maria degli Angeli, la cui imponente navata manierista conserva, come in una matrioska ecclesiale, l’umilissima chiesina altomedievale nei pressi della quale il Patrono d’Italia produsse le maggiori hit della sua agiografia, tra cui “L’esperienza del Roseto” e “L’Indulgenza della Porziuncola” (dal nome della chiesina).
Saranno i dipinti con le storie della vita del Santo che fanno da proscenio al palco del Lyrick, costruito nel 2003 proprio per ospitare la prima di Francesco, il musical di Vincenzo Cerami; sarà che il sipario stesso del teatro è, di fatto, un enorme tabernacolo a raggiera dorata che si apre a metà, inquadrando la scena; sarà che Max comincia lo spettacolo con un monologo-omelia sul conflitto israelo-palestinese; ma, mentre ascoltiamo il Gazzè di Assisi, non può non venirci in mente che Max possa essere in qualche misura il più francescano dei musicisti italiani: dolce, semplice, dedito al prossimo.
Quello che il Poverello di Assisi doveva sembrare un’anomalia alla Chiesa militante a lui coeva, per poi esserne santificato; lo stesso è Max rispetto all’industria musicale che ne ha accolto le istanze sperimentali, facendolo diventare un nume tutelare della qualità economicamente sostenibile: un rinnovamento spirituale da tutto esaurito (com’è stato ad Assisi, con una platea da 1000 posti). Proprio come Francesco, egli non rinnega o condanna da contestatore estremista le tendenze della musica mainstream, ma la considera in qualche modo madre e – mescolando con sensibilità fonti pop ed esecuzioni alternative, e viceversa e pur lodando sempre fratello Pop e sorella Melodia – ne prende, all’occorrenza, le distanze.
«Non uso i social. Ma dovendo aprire un tour proprio oggi mi è sembrato impossibile tacere, a teatro, sui fatti che stanno accadendo in questi giorni. Trovo assurdo che, davanti alle Nazioni Unite, ci si possa astenere su questa mattanza», ci ha confidato quando, terminato anche il quinto bis, lo abbiamo raggiunto in una sorta di grotticella situata dietro le quinte, in cui si nutriva di ciauscolo e porchetta insieme ai compagni di band, mentre li debrieffava sulla serata.
Amor Fabulas – Preludio è dunque un elogio del qui e ora contro l’ovunque e sempre imposto dalla digitalizzazione e la virtualizzazione del consumo della musica, un’esperienza tanto irripetibile che è un work in progress (a tratti anche progressive, vedi l’arrangiamento di Sirio è sparita) che, con tutta probabilità, già nella seconda tappa catanese sarà un altro concerto.
«Daniele Fiaschi è stato un po’ troppo bravo con la chitarra, in Atmos: potremmo lasciarla così, solo strumentale», ha profetizzato Max, con la modestia di chi sa di avere già un eccellente testo in tasca (magari scritto, guarda caso, con il fratello Francesco) e ci ha lavorato nei Real World Studios di Peter Gabriel, come del resto è stato per il singolo già pubblicato Che c’è di male e tutto l’album che verrà. «Il primo pezzo, invece (Quante lune vuoi), non ha avuto voce solo perché ne dobbiamo ancora modulare meglio la parte armonica».
Lo spettacolo offerto sabato è stato quantomai singolare. Era spaccato a metà tra pezzi inediti ancora michelangiolescamente non finiti e pezzi storici ancora mai suonati dal vivo. Un cavallo di battaglia qua e là, ma il resto era un cantiere musicale condiviso dal vivo con l’uditorio, che sembrava gradire l’occasione di partecipare alla definizione di un lavoro così originale almeno quanto quella di nitrire le hit annidate nella scaletta (e naturalmente trionfanti nei bis, culminati con Una musica può fare).
L’affiatamento con la formazione storica (Micalizzi, Fiaschi, Ferrari e Dedo, ai quali si sono aggiunti Greta Zuccoli ai cori e Nicola Molino al vibrafono) era quello delle grandi occasioni, al punto che il travolgente mash-up tra La favola di Adamo ed Eva e Oye como va è sembrato un piccolo miracolo alla bimbetta cresciuta a pane e Carolina Benvenga che sedeva accanto a noi («Mamma, erano già d’accordo, vero?»). Per Cara Valentina il miracolo della musica dal vivo si è ripetuto ancora quando, dopo che il pubblico aveva ripreso per conto suo il ritornello, a pezzo finito, la band e Max hanno improvvisato ossessivamente sulle parole: “Per esempio non è vero che poi mi dilungo così spesso su un solo argomento”, con almeno una mezza dozzina di variazioni sul tema. Nel mentre la bambina di sopra capiva, rideva e defollowava mentalmente almeno una decina di youtuber.
La sola scenografia di Stefano Di Buduo, inoltre, sarebbe valsa il prezzo del biglietto. La sua video art proiettata su due teli di tulle – uno davanti e uno dietro alla band: un vero doppio attacco frontale ai led wall – fungeva da sipario nel sipario, quando nascondeva la scena; e da quinta, quando dialogava con essa, aiutandolo a inquadrare meglio gli inediti o invogliandolo a scoprire nuove sfumature dei classici. Mentre dormi, ad esempio, si è animata di un velo che si muoveva lento e di continuo, posandosi sugli occhi del pubblico ma, al momento del ritornello, eccolo volare dalla platea verso il palco. Le installazioni di Di Buduo costituivano un apparato così importante che, quando c’erano solo le luci a sottolineare un brano nuovo, e non le proiezioni, era un po’ come andare all’opera in modalità hardcore, senza libretto e senza sottotitoli.
«Questo concerto è uno spettacolo sull’amore in tutte le sue possibili declinazioni», ha chiosato Max, dalla sua grotticella. Non si può essere più francescani di così, in materia di scalette. Si è cominciato con l’amore paterno davanti alle responsabilità del presente dell’inedito Sarà papà e si è finito con l’esplosione di un intero team bride – orfano del Timido ubriaco (neanche tra i bis) – che aveva deciso di trascorrere un addio al nubilato umbro tra le rime baciate di sposa e rosa, ma che sapeva dimostrare, ormai sottopalco, di sapersi dimenare comunque benissimo anche sulle note del Solito sesso.
Quando l’officiante di Santa Maria degli Angeli si installa dietro all’altarino della Porziuncola, situata al centro del transetto di quell’altra chiesa tanto più grande di essa, può predicare a tutta la Basilica, un po’ come il pilota di un Mecha comanda tutte le parti di un immenso robot spingendo le leve del suo solo, minuscolo abitacolo. Così Max Gazzè, dal suo palco assisano, lottava, per una sera, anche per il resto della musica italiana.