Ero partita con l’idea di scrivere altre cose – ossia di dare un altro taglio, come si dice, a ciò che avrei scritto sul live a San Siro di Max Pezzali – ma poi ho cambiato idea scorrendo le mie storie di Instagram. Mentre andavo allo stadio Giuseppe Meazza, la gialla fino a Zara e poi la lilla fino a destinazione, ho ascoltato i Sonic Youth e ho postato due canzoni, Kool Thing e Teen Age Riot. Immediatamente dopo, una serie di video di Max. Ché oggi il cognome non vale più nulla, chiunque si chiama per nome: Max, Lorenzo, Gianni, Cesare, forse pure Kim e Thurston.
Il punto non è però tanto l’appellativo, quanto una specie di coerenza stilistica: che ci fanno due singoli estratti rispettivamente da Goo e da Daydream Nation accanto ai vari Sei un mito, Hanno ucciso l’Uomo Ragno, Gli anni e Nessun rimpianto? La risposta che mi sono data in parte risiede nella prima data milanese di Max – pazzesca, incredibile, impeccabile –, in parte (credo) in ciò che è successo negli ultimi due anni.
Con tre decenni di onorata carriera alle spalle, non puoi che attirarti una platea trasversale in ogni senso, che sia da intendersi come età, genere, mettiamoci pure l’estrazione socioculturale. E mettiamoci pure le ospitate di Mauro Repetto, di Paola e Chiara e di J-Ax. Max Pezzali è diventato «la nostra memoria pop» (lo disse Jova a Lignano Sabbiadoro, è una citazione di cui ultimamente mi approprio spesso), i suoi concerti sono «una grande festa di compleanno», «un karaoke gigante» (queste invece appartengono a due amici): tutti le sanno tutte, ché per fare sold out a San Siro per due giorni consecutivi devi per forza di cose appartenere al club dei Grandi, ossia di coloro che basta un ritornello e azzerano qualsiasi differenza tra il pubblico.
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Max Pezzali è uno furbo: non fa proclami, è lì solo per divertirsi e divertire, con le sue camicie che ti fanno venire voglia di chiedergli «ma dove l’hai pescata?» – quella sfoggiata all’inizio del concerto che ricordava le vecchie collezioni di Jean-Paul Gaultier e riportava una scritta profeticamente vera, «Those real punks had never wore Prada» – e le coreografie che se le usasse qualcun altro sarebbero trash, e invece no, lui può. Ci sono gli Arbre Magique colorati che danzano sulle note di Sei un mito; le ragazze con un’enorme strobosfera in testa in stile Daft Punk quando è il turno della Regina del Celebrità; i ballerini travestiti da poliziotti che ci assicurano che «il crimine non vincerà».
E poi, dicevo, ci sono stati gli ultimi due anni, durante i quali volenti o nolenti ci siamo rifugiati appunto nella nostra memoria pop per silenziare la solitudine e la paura – «Se stanotte nel buio non ti senti sicura, usa le canzoni» (l’ennesima citazione) – e per sentirci comunque vivi. Gli ultimi due anni che mi hanno insegnato che non c’è tempo e non c’è spazio (aridaje) per essere dei puristi con la puzza sotto al naso, per vergognarsi di quelli che una volta definivo guilty pleasure (che senso ha vergognarsi dei propri piaceri? Non è una contraddizione terminologica?) e di cui invece ora vado fiera, che non c’è nulla di sbagliato nel commuoversi sia su Come mai che su Tonight, Tonight.
Che non c’è nulla di sbagliato, insomma, a rifiutarsi di rinnegare cosa siamo stati e coloro che ci hanno cresciuti con le loro canzonette, gli unici che d’altronde oggi possono vantarsi di far squarciagolare uno stadio intero a suon di «Nord Sud Ovest Est, e forse quel che cerco neanche c’è». È il nostro tempo delle mele che ritorna e che a ’sto giro ci vogliamo tenere ben stretto non tanto per indulgere nostalgicamente nel passato, quanto per sentirci ancora noi: liberi, sudati, felici e senza voce. Pochissimi riescono a compiere una simile magia, e Max Pezzali è tra questi: peccato per chi non c’era ieri e per chi non ci sarà stasera, non potete davvero immaginare che vi siete persi.