L’elogio della normalità, essenza del canzoniere delle piccole cose di Max Pezzali, ha vissuto la sua notte eccezionale al Circo Massimo di Roma, in una kermesse dalle evidenti intenzioni revivalistiche. Intenzioni sospinte dal quel certo spirito ecumenico che traversa una scena musicale italiana mai come adesso pacificata, come se davvero fosse finalmente divenuta saggia e non conflittuale, mentre il cordoglio per la scomparsa di Toto Cutugno chiama a raccolta figure inaspettate e parlando di “passato” emerge una diffusa voglia di sentirci tutti più buoni e – orgogliosamente – di “rivalutare”. Così Pezzali si è messo al centro di questo progetto assemblato con cura e ben dotato di significati italici, scalettato con ritmi televisivi (parole zero, ospiti liquidati sbrigativamente, differita del concerto il 7 settembre su Canale 5) ed eccoci qui, con le abbronzature che si sbiadiscono, a ripercorrere il memory lane intestato al 55enne di Pavia e un pochino anche al convitato di pietra della serata, il suo ex-socio, paroliere e ballerino, Mauro Repetto, che ebbe un ruolo rispettabile nella vicenda. Lo spirito del tutto è intensamente “bravi ragazzi al karaoke”, la voglia di trasgressione è bonaria e l’unico fastidio proviene dalla riproposizione di un light show che, anziché illuminare il palco, è pensato per accecare il pubblico, scimmiottando l’effetto-discoteca: una tendenza sempre più frequente, deprecabile e di pessimo gusto.
Divagazione: è negli stessi anni ’90 fotografati dalle canzoni di Max, che l’orizzonte delle ambizioni creative in musica si è ristretto e avviato a depressione. Un sincronismo che c’entra più di qualcosa col successo degli 883 e con le relative intuizioni di Claudio Cecchetto: il focus si spostava dai grandi temi delle utopie alle cronache di vite più ristrette, nelle quali nessun grande sogno poteva avverarsi, perché la realtà – Lo Strano percorso cantato da Max – portava da tutt’altre parti. Ciò non toglie che, per chi abbia avuto vent’anni in quel momento, sia valsa comunque la pena esserci, provarci, stordirsi. E a chi è sopravvissuto a quella disillusione, è indirizzato il Circo Max, specchio dei ricordi, museo canterino e celebrazione di una gioventù che, come le altre, è stato memorabile vivere. Il cartellone, comunque, è attento ad adeguare gli scenari al presente. Certo, ci sono preziosi testimoni d’epoca come gli Articolo 31, Paola e Chiara e il delizioso set del Deejay Time con Albertino, Fargetta, Molella e Prezioso. Ma, in omaggio al nuovo che avanza, ci sono anche Gazzelle, il più diretto figlioccio spirituale di Pezzali, e poi Colapesce-DiMartino, Dargen D’Amico, Lazza e Riccardo dei Pinguini Tattici Nucleari, tutti autorizzati a presentare, dopo il duetto col titolare, il rispettivo tormentone estivo. Il pubblico canta, gode, celebra e non si fa domande: sparsi nel pit ci s’imbatte in diversi addii al nubilato festeggiati ballando con Pezzali, tantissime bandane MAX e un’infinità d’istantanee da roba coatta, stile «Aho, reggeme la bira» (trad.: puoi per favore tenermi la birra?).
Corollario: a cosa si è ridotto il postmoderno – il suo racconto e il suo senso – all’altezza del 2023? Basta guardarsi intorno per capire che la rappresentatività del mondo raccontato da queste canzoni ancora funzioni e abbia una sua intensità, magari soltanto simbolica, perché per tanti le cose davvero sono andate come canta Max – la provincia, la sfiga, gli amici prima di tutto eccetera – ma poi nella maggior parte dei casi si è messa la testa a posto. Ergo, ormai siamo oltre il giochino dell’alto-basso e realizzare un prodotto a forte tasso d’identificazione indirizzato alla moltitudine di anime perse dei non-luoghi italiani rappresenta una scelta commercialmente scaltra, ma anche parecchio retrò nelle allusioni e che per forza finisce per battere la malmostosa strada del juke-box-nostalgia.
A volerci ragionare a tutti i costi – sennò perché siamo venuti qui? – si direbbe che a spuntarla sia piuttosto la fenomenologia del “cosa ci siamo persi”, rinfacciata agli snob che a suo tempo rifiutarono di sporcarsi le mani con queste canzoni. Ci sta: gli stronzi che non si filavano i mondi cecchettiani del Deejay Time, rivendicavano una superiorità dell’élite che oggi denota buchi di credibilità. Però anche il pentimento deve avere dei limiti: se è vero che da quello stesso catino culturale uscì San Lorenzo Jovanotti, che avrebbe imboccato un cammino di redenzione dal pensiero debolissimo, è altrettanto vero che questa sia stata l’anticamera di un cambiamento non elettrizzante, condensato stasera nei milioni di selfies scattati durante il concerto. Nella sfera psicologica musicata da 883 e soci prendeva insomma forma una nuova maggioranza, per lo più mansueta e consumista. Niente a che vedere con le precedenti intemperanze giovanili, con le ribellioni e i rifiuti. Si è cominciato a giocare di rimessa e, se volete, chiamatela discontinuità. Comunque tutto ciò adesso appartiene a un passato profondo e il valoroso sforzo prodotto da Max Pezzali per restare a galla in questo scenario residuale, produce un intrattenimento rispettabile e festoso, ottimizzando un campionario musicale suggestivo e dosi da elefante di “come eravamo”. Lo slogan? Nostalgia quarantenne / brand perenne. Del resto è Storia Moderna, sebbene non Contemporanea, anche questa.