La tradizione, o la mera sopravvivenza del punk (potremmo dire rock, e preferiamo non dire grunge) passa anche attraverso quattro signori di mezza età che per gran parte dell’anno fanno un altro lavoro. Come Mark Arm, il cantante e chitarrista dei Mudhoney, band storica di Seattle – e pionieri del, appunto, «grunge» -, che in una sorta di piacevole e simbolico contrappasso lavora oggi come magazziniere per la Sub Pop, la storica etichetta indipendente (oggi meno) che ha pubblicato gli esordi di Soundgarden, Nirvana, Tad, Mudhoney e tanti altri – esclusi i Pearl Jam: loro, concreti, intuirono o si lasciarono convincere che il loro disco era troppo radiofonico per esordire con una major. Questione di priorità.
E i Mudhoney – la più ruvida delle band uscite dalla scena di Seattle, fieramente ispirata agli Stooges, al punk ma anche al blues – oggi ha il non piccolo merito di riuscire a riempire, tre decenni dopo il primo disco, uno spazio per concerti non enorme, ma nemmeno minuscolo, come il Santeria Social Club di Milano. Roba che band più giovani e circondate da più hype ci farebbero la firma.
Sarà anche che, un paio di girovita a parte (tra cui quello del bassista Guy Maddison, che si dimostra amante della birra per la gioia dei fan), i Mudhoney oggi non sembrano tanto diversi da come apparivano, e suonavano, circa trent’anni fa. In particolare la coppia Mark Arm e Steve Turner, il chitarrista, sembrano ancora i ragazzotti un po’ strambi di un tempo («La Sub Pop era l’unica etichetta che scritturava gente brutta come noi», mi ha detto Arm, scherzando ma neanche troppo, in un’intervista di qualche mese fa), con in più oggi l’affiatamento di migliaia di live in cui hanno perfezionato il loro caos organizzato.
La voce di Arm, che sembra partire un po’ in sordina, si riprende alla grande quando, presto, i Mudhoney iniziano ad alternare i pezzi degli ultimi album – sembre dignitosissimi quando non proprio buoni, come Kill Yourself Live, dell’ultimo Digital Garbage – con pietre miliari come Touch Me I’m Sick, You Got It, Into the Drink, Suck You Dry, e il pazzesco riff di Judgment, Rage, Retribution and Thyme. Ovviamente il pubblico, variegato ma non freschissimo, apprezza e ne approfitta per fare un po’ di stage diving, pratica sempre meno tollerata ma qua sì – un tizio coi dread ne approfitta anche per dare un bacio (sulla guancia) ad Arm, che non si scompone più di tanto. (Approfittiamo di questo spazio per una preghiera: ragazzi, e non più tali, non aspettate la fine di un pezzo per salire sul palco: vi ritrovate a dovervi lanciare sulla gente a musica ferma, abbassando pericolosamente le chance di essere presi al volo, oltre al fatto che sembrate molto meno fichi agli occhi dei vostri amici).
Insomma, i Mudhoney sono degli onesti operai (specializzati) del rock, che forse per il fatto di non avere mai inseguito il successo commerciale, o di avere un’altra vita al di fuori della band, si sono conservati meglio di tanti altri gruppi. Chi è venuto in Santeria per cercare un tuffo nel passato e nella nostalgia l’ha trovato, ma ha trovato anche qualcos’altro: quattro persone normali che al carisma e alla vanità hanno preferito non smettere mai di credere nel rock, che non si sono imborghesiti di una briciola, e con un repertorio di pezzi che oggi suonano ancora potenti e incazzati come quando sono stati scritti.