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Nel pit di San Siro per sentire l’assurda complicità tra Taylor Swift e il suo pubblico

Il primo dei due concerti italiani dell’Eras Tour visto in mezzo agli Swifties: la forza di un jukebox musical in cui sai quasi sempre cosa sta per accadere, le cheering song per sé stessi, il processo di femminilizzazione del pop. Una festa de-testosteronizzata

Foto: Vittorio Zunino Celotto/TAS24/Getty Images for TAS Rights Management

La domanda che mi facevo entrando a San Siro era questa: che gusto c’è a vedere un concerto in cui, a parte una decina di minuti di musica e pochi altri dettagli, sai già precisamente che cosa accadrà? Il bello d’uno spettacolo dal vivo non è anche venire sorpresi, spiazzati, magari turbati? Scoprire un mondo nuovo? Migliaia di foto, milioni di commenti e microreport, cascate di terabyte di video diffusi sui social e il film su Disney+ hanno fatto dell’Eras Tour il concerto più visto della storia del pop anche da chi non ci è mai andato.

Dopo aver passato tre ore nel pit coi fan di Taylor Swift ho capito che è questo il punto. Andare a vedere l’Eras Tour senza sapere esattamente quel che sta per accadere, senza conoscere il significato d’un gesto o d’una scenografia è roba da dilettanti che dopo un paio d’ore cominceranno probabilmente ad annoiarsi. Il concerto funziona non nonostante, ma grazie alla prevedibilità. Tutti conoscono ogni canzone, ogni tic, ogni messinscena, ogni mossa replicata esattamente come la si è vista su Internet. E quindi tutti si sentono parte di qualcosa, partecipano a un rito officiato da una popstar elevata a modello di cocciutaggine (io dico ben spesa per i vaffanculo a una certa discografia che sono le Taylor’s Version), di indipendenza e di forza.

Vedere Taylor Swift dal basso, sotto il palco disposto su uno dei lati corti dello stadio e sotto la lunghissima passerella che s’allunga sul campo di gioco, fa capire la potenza della relazione parasociale in cui i fan investono tempo, denaro, energia e passione che è tipica di qualunque fandom, ma non sempre si presenta in questa forma acuta. C’è qualcuno che si commuove quando Swift appare a 13 anni dall’ultimo concerto italiano, ma non vedo scene d’isteria. Pare invece d’essere a una grande e costosissima festa tra amiche che han bisogno di qualcuno che dica loro che non sono sbagliate o forse semplicemente che vogliono evadere per qualche ora infilandosi nella vita di una che sembra goffa, ma alla fine vince sempre. Vista da vicino, a me Taylor Swift ha messo allegria. Più che madre, che è la parola più usata negli ultimi tempi nel gergo pop per indicare i nuovi modelli di ruolo, sembra la versione enhanced d’una sorella maggiore che mette in riga i cattivi ragazzi, i suoi e i tuoi.

La scena si svolge spesso al centro della passerella e quindi nel pit si danno quasi costantemente le spalle al palco e ai musicisti che sono relegati ai lati del megaschermo. Del resto nel pop odierno poco importa se gli strumentisti sono defilati, nessuno davvero sembra interessarsi a se e cosa suonano, le esecuzioni musicali non sono il senso del concerto, servono ad accompagnare la scena. Le coriste sorridono sempre, da brave entertainer americane, il chitarrista che è dalla mia parte, Paul Sidoti, lancia plettri con su l’immaginetta di Lover e imbraccia spesso il modello di Eddie Van Halen (che strano vedere quella decorazione a strisce all’Eras Tour). La gente si diverte. Magari sono io, ma vedo un po’ di stanchezza quando arrivano le canzoni di The Tortured Poets Department. Lo show è lunghissimo, pieno di canzoni serenamente eliminabili, ma immagino non sia quel che vogliono gli Swifties così come i fan di Bruce Springsteen preferiscono un concerto da tre ore a uno da due e mezza.

A un certo punto Taylor incita il pubblico a sottolineare cantandolo più forte il passaggio di All Too Well che dice “fanculo il patriarcato!”. Se Swift è quella che è, e cioè non solo una cantante d’immenso successo ma una specie di paradigma culturale, è perché rappresenta il punto più alto del processo di femminilizzazione del pop. Non vuol dire solo che ci sono in giro più cantanti donne di successo, ma che sono riuscite con la loro presenza e la somma delle loro esperienze anche contraddittorie a spostare il baricentro della musica popolare.

È una cosa più potente delle musiche, dei visual, delle coreografie. Non si può capire Taylor Swift se non si capisce che ha utilizzato un meccanismo tradizionale, la canzone come convalida di sentimenti ed emozioni che tutti provano – lei 34enne che a volte canta d’amore come se avesse dieci anni in meno – per creare uno spazio sicuro e molto femminile. Canta di pene d’amore, strazi, dubbi, insicurezze, ma pure di relazioni tossiche da troncare in una perenne ricerca di felicità che comprende anche l’ammissione dei propri limiti, questi ultimi beninteso espressi con ironia e moderazione, in modo ammiccante. Così facendo ha reso i concerti feste de-testosteronizzate al cui centro c’è una ragazzona americana che balla in modo buffo tirando fuori la lingua e sembra più raggiungibile di quel che è. Si capisce dal trasporto con cui la gente canta che i testi sono fondamentali e non si può dire la stessa cosa di altre popstar delle cui canzoni conosciamo a malapena poche parole e questo per manifesta mediocrità.

Swift lancia occhiate alle fan delle prime file e loro la salutano con la mano, come se quel gesto potesse creare anche solo per un istante un legame. «Sei bellissima!», canta il pubblico intonando il pezzo di Loredana Bertè. Mi guardo attorno e penso a certe critiche apocalittiche all’Eras Tour e alla dabbenaggine dei fan, è la fine della musica, è il tramonto dell’Occidente. Anche meno, è solo gente che va un concerto. È intrattenimento all’americana e quindi è scritto come un jukebox musical di Broadway. Swift è la somma della cultura dello spettacolo, della musicianship del country, d’un gusto narrativo che sembrava fuori moda, dell’eccitazione che viene del pop (che euforia per il segmento dedicato a 1989), delle nuove sensibilità e delle idee moderatamente progressiste, dell’accettazione del mercato come luogo in cui realizzarsi, dello strano bisogno della gente di trovare qualcuno da adorare e con cui intonare canzoni che in certi passaggi somigliano a cheering song per sé stessi.

È il pit più tranquillo in cui sono stato ed è anche poco affollato, un fatto sorprendente trattandosi di uno dei concerti più richiesti dell’anno. Alla faccia del mito degli accampamenti davanti agli ingressi, arrivare un quarto d’ora prima dell’inizio permette di piazzarsi in un’ottima posizione. Sotto al palco non c’è aggressività e neanche erotismo, che è tradizionalmente una parte fondamentale del pop. L’idolatria del pubblico di Swift, verificabile leggendo i complimenti adoranti sotto una qualunque sua foto postata sui social, ha anche fare con la venerazione d’una specie di fata potente e simpaticamente goffa più che col desiderio nei confronti di una entertainer sexy. C’è qualcosa di puberale o addirittura di prepuberale in certi momenti, l’evocazione di un tipo di libertà dalle fatiche e dalle complicazioni della vita adulta, ecco perché la scena di 22 è simbolica e ogni volta strappa un sorriso o persino commuove nella sua semplicità ben sceneggiata.

Per chi non lo sapesse: durante la canzone Swift percorre tutta la passerella verso una bambina che l’aspetta alla transenna, quella di ieri sera aveva scritto sulla t-shirt “It’s Me I’m the Birthday Girl”, su quella della cantante si leggeva “I Bet You Think About Me”. È l’unico momento in cui c’è un vero contatto tra qualcuno del pubblico e la cantante che altrimenti troneggia sul palco se siete nel pit o è un punto lontano se siete sugli spalti. Taylor regala alla bimba il cappello che indossa, l’abbraccia, ci scambia due parole, la saluta mentre s’allontana coi ballerini. Creando un piccolo momento d’intimità con la bambina, lo sta creando con tutti. È una scena che s’è vista più di cento volte. Osservandola da qui, dal pit pieno di ragazze che indossano braccialetti dell’amicizia, e hanno il numero 13 disegnato sulla mano, viene da considerarla metafora calzante dell’Eras Tour, un rito in cui viene messa in scena l’assurda complicità tra la massima popstar vivente e un pubblico mosso dal bisogno di emozionarsi per qualcosa. Un rito in cui c’è un elemento quasi infantile e uno di uncoolness.

A un concerto di Taylor Swift non si va per essere sorpresi, dicevo, ma neanche per sentirsi fighi. Anzi, ci sono molte cose incredibilmente uncool che succedono sopra e sotto il palco, ma se non fosse così l’Eras Tour non attirerebbe tanta gente e non eserciterebbe il suo fascino ogni sera. Ci ripetiamo da anni che smartphone e social hanno rovinato le emozioni dei concerti, che sapere tutto in anticipo è una gran fregatura, e poi i fan si ritrovano a pochi metri da Taylor Swift e si divertono un mondo a replicare le parole, i gesti e le emozioni che milioni d’altre persone hanno cantato, fatto e provato prima di loro.

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