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Nessuno è escluso alla festa dell’unità della Rappresentante di Lista

Una manifestazione pop, un rave autorizzato con l’autoconsapevolezza al posto delle droghe, un concerto svuotafrigo, un ballo sulle macerie, uno show inclusivo: ecco com’è andata ieri a Milano

Foto: Roberto Panucci/Corbis via Getty Images

Pensavo questo, mentre sul palco sventolava un’enorme bandiera rossa e si cantava in coro che “la mia natura è resistere” e dall’altra parte della città c’erano De Gregori e Venditti. Pensavo che se la Festa dell’Unità fosse quella d’un tempo, un luogo cioè dove passa un pezzo di cultura popolare progressista e contemporanea, nel 2022 sarebbe un posto perfetto per La Rappresentante di Lista. Perché oggi in Italia ci sono artisti senz’altro più avanzati di loro in termini di suoni, di idee, d’intuizioni. Nessuno però li traduce in una forma così spudoratamente popolare e quindi pop, larga, per tutti.

È passato ieri sera dal Fabrique di Milano (pienissimo) il concerto svuotafrigo della Rappresentante. Così lo chiama scherzosamente Dario Mangiaracina giacché lo spettacolo mette assieme elementi sonori e scenici di un bel pezzo della loro storia. M’è sembrata una festa identitaria e collettiva per il modo in cui tutti i musicisti sembrano porgere le canzoni muovendosi sul fronte del palco, per i cori intonati manco fossero a una manifestazione, per i testi che incitano a prendersi la libertà che ci spetta. Un Primo maggio in novembre aggiornato alle politiche identitarie del 2022. Era una vita che non vedevo la bandiera dei quattro mori su un palco.

È un mix di vecchio e di nuovo, di tradizione progressista e di identità post-post-moderna, di salamella e di queerness. Questa miscela si riflette nella musica dove s’accavallano beat e fisarmonica, parti suonate da musicisti veri (e bravi) e basi, echi di musiche del mondo e discoteca di provincia. In qualche modo tutto si tiene in questa celebrazione comunitaria, un’idea che viene non solo enunciata, ma rappresentata sul palco e teatralizzata.

In piedi sul pianoforte, Veronica posa da politica erotica, per usare la definizione di un mito enorme e d’altri tempi. La musica della Rappresentante passa anche attraverso i corpi, anzitutto il suo. Lo si capisce non tanto dalle grida eccitate e bisillabiche («di-va!», «fi-ga!») che sento quando la giacca oversize (pare di seconda mano, come tutti gli abiti del tour) si scosta e lascia intravedere il body rosso, una spalla, il corpo dell’amica di birrette che posa ironicamente da diva. Passa dai corpi, dicevo, anche perché è un concerto liberatorio, che i corpi li canta e che parte con lentezza per poi travolgere il pubblico con pezzi squarciagolabili e ballabili. Come Amare, simbolo della comunione fra chi sta sopra e chi sta sotto il palco, e Ciao ciao, che chiude il concerto prima dei bis con un’impennata di ritmo, d’entusiasmo, di partecipazione.

È femminismo pop accogliente e accessibile, e viene da un gruppo che, va ricordato, affonda le radici nell’underground. E mentre se ne allontanava, e il suono e le parole diventavano contemporanee, e la stranezza diventava cool, le loro «ballate claudicanti e danze aliene» (per dirla con Giorgio Canali) conquistavano un vasto pubblico, portando La Rappresentante sulle copertine di Grazia, Cosmopolitan, Vanity Fair. Portandola ovunque. I due sono pure andati a insegnare il balletto di Ciao ciao a Belén Rodriguez alle Iene e io cerco di non pensarci mentre Veronica, Erika e Marta cantano “dentro la mia testa non mi legheranno mai”. È una gran festa universitaria per la fine del mondo, un rave autorizzato con l’autoconsapevolezza al posto delle droghe, una manifestazione pop. Un ballo sulle macerie del capitalismo, come han detto loro, imbeccati, qualche ora prima alla radio. Ma anche sulle macerie del pop italiano e dell’attivismo pre-performativo, quando le battaglie civili non erano branded. Il bello è che non ci sono musi lunghi: come canta Veronica (ma non stasera), sei felice o sei complice.

Lo confesso. Contro ogni evidenza, ho sperato fino all’ultimo che il singolo più recente del gruppo, la Diva che è andata a sommarsi a Ciao ciao, Be My Baby e Vita allungando l’esistenza dell’album My Mamma, fosse un’ironica presa in giro di chi rivendica i propri traumi a tal punto da alimentare il culto della fragilità. E invece ieri al Fabrique erano tutte dive: «lo sei tu, e tu, e tu!», ha detto Veronica, indicando vari punti della platea. Questa celebrazione di fragilità che passa per la psiche delle star finisce paradossalmente per riflettere l’esperienza di chi sta sotto il palco a saltare e ballare e magari sentirsi un po’ meno escluso. Curiosamente, i bis sono stati sostituiti da un dj set con dentro di tutto, da I Feel Love alla milanesissima Myss Keta, «per portare qui con voi quel che facciamo nel backstage a fine concerto». Sono poi scesi tutti quanti dal palco per suonare e cantare L’isola in platea, in mezzo a quella comunità evocata per un’ora e mezza, eppure nascosti agli occhi dei più.

C’è qualcosa di gioiosamente sgangherato in questa rappresentazione teatrale e tutta italiana dell’empowerment di cui ci parlano da anni le popstar internazionali. Potete trovare retoriche le parole sullo spazio tra palco e transenne, «che non è distanza, è la nostra fantasia, è la vostra immaginazione». Forse il dj set che ha sostituito i bis è stato la continuazione del concerto con altri mezzi o magari l’ha reso monco. Di certo, a differenza di molti colleghi, quelli della Rappresentante di Lista sul palco fanno succedere qualcosa: una festa dell’unità. Ed è bello, ed è giusto così, in minuscolo.

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