Metteva paura. Andava su e giù per il palco con un’espressione da pazzo. La musica era talmente selvaggia da dare l’impressione che i Bad Seeds faticassero a controllarla. C’eravamo noi e dall’altra parte c’era lui. In mezzo, una fossa immaginaria e incolmabile, riempita anche da storie di dissolutezza leggendaria. Questo accadeva tanti anni fa. A un certo punto il suo approccio allo spettacolo è cambiato. Ha cominciato a proiettarsi verso il pubblico, anche fisicamente, ed è nata tutta una pubblicistica attorno alle sue esibizioni fatta di parole quali comunione, catarsi, esorcismo. Mentre cantava in spazi sempre più grandi, Nick Cave diventava una specie di predicatore rock alla ricerca di uno scambio col suo pubblico, di un contatto, di una forma di condivisione, di una redenzione collettiva. A Verona ha trovato un ostacolo: la buca.
Sono le 20 e all’Arena dicono che non entra nessuno perché il concerto è sospeso. Forti raffiche di vento hanno danneggiato la struttura del palco, i vigili del fuoco stanno verificando l’agibilità. Prima delle 21 la notizia: è tutto ok, si può entrare. Continua a piovere, l’attesa si prolunga, si spera di ripristinare il palco entro le 22. Di fronte alla strumentazione coperta da teli c’è la buca degli orchestrali. Gli spettatori destinati a stare lì, nella fossa trasformata in pit, sono distribuiti sulle gradinate. Quando due inservienti la asciugano, gli sfrattati urlano «buca, buca!» nella vana speranza di tornarci e vedere Nick Cave da vicino. Non succederà. Anzi succederà, ma non nel pit.
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Si inizia infine alle 22.15 con quel grande vuoto che separa il cantante dal pubblico. Nick Cave dà il via al concerto con un calcio, un direttore d’orchestra infuriato. Corre, s’inginocchia, incita i Bad Seeds e i coristi, e però la sensazione è che non riesca ad annullare quella distanza. «È strano» dice guardando la buca. Non c’è abituato. Sono anni ormai che canta letteralmente in mezzo al pubblico, a contatto con la gente, a volte per condividere i testi, a volte per cantarli letteralmente in faccia a chi lo guarda estasiato. Annulla di solito lo spazio fra palco e platea, ci si butta letteralmente dentro. E quindi all’Arena non sa che fare, va avanti e indietro, pare un animale in gabbia. Guarda di nuovo la buca, dice che è un «big fucking hole», si domanda che può fare. Poi, durante un’esecuzione feroce di From Her to Eternity, scende finalmente in platea e sale sulle gradinate, dà e riceve quell’abbraccio, una scena che si ripeterà più volte nel corso della serata. La distanza è finalmente ridotta. Durante Jubilee Street, quando urla esagitato “look at me now”, mezza Arena balza in piedi, mossa dallo stesso bisogno. A quel punto è come essere in 1200 al Rolling Stone e non in 10 mila in un’Arena piena di stranieri in vacanza. I Bad Seeds sono una meravigliosa macchina da musica, passano da momenti gospel a sfuriate violente, dialogano col cantante anche quando loro stanno sul palco e lui è sulle gradinate, a cantare illuminato da un faro tra le braccia del pubblico, a recitare la folle poesia di Tupelo nell’anno santo di Elvis.
Il concerto che Nick Cave sta portando in giro per l’Europa segue un copione preciso e forse non è un caso che si apra con il consiglio di Get Ready for Love e si chiuda con un canto per l’ingresso nel regno dei cieli. Cave è uno dei pochi in circolazione in grado di usare la musica come virtù redentiva senza cadere nella retorica. Non ci sono effetti speciali, né proiezioni che imbrigliano lo show, eppure le canzoni che interpreta in queste settimane sono sempre quelle, nel medesimo ordine. L’ostacolo della buca e della pioggia è la variabile che scompiglia il copione e rende il concerto una piccola lotta. E così Bright Horses viene dedicata agli eroi della serata, la crew, e I Need You non ai figli come al Primavera, e del resto sarà stufo pure lui d’essere considerato vittima d’un destino malvagio, sarà stanco di chi legge ogni sua canzone alla luce della morte di Arthur e Jethro. Stasera I Need You è dedicata «a tutti voi», perché «è un privilegio essere qui» e «per via delle condizioni difficili fare questo concerto significa molto». Bastano pianoforte e voci per trasformarla in grande teatro rock, con Cave che canta con voce strozzata dalla commozione (un copione beninteso che si ripete ogni sera) “just breathe”, il mantra minimale che serve per andare avanti anche se si è straziati dal dolore. Lo spettacolo deve finire prima di mezzanotte e mezza e perciò Cave accorcia lievemente la scaletta, ma non importa: non sarebbe stato comunque possibile superare Into My Arms che l’Arena intona insieme a lui.
Negli ultimi anni Nick Cave s’è dato sempre di più al pubblico, non solo nei dischi e nei concerti, ma anche in film estremamente personali e nei Red Hand Files in cui risponde alle domande dei fan con candore e assennatezza. Produce musica e parallelamente una riflessione su di essa, o per lo meno fornisce indizi, chiavi di lettura se non dei contenuti almeno del modo in cui la fa. La scelta d’essere più trasparente non ne ha menomato l’istinto da performer killer, né ha rovinato il mistero che circonda le sue creazioni. Alla fine è riuscito persino a trovare un senso a quella maledetta buca, dicendo che è abitata dagli spiriti delle persone che ci siamo lasciati alle spalle. All’Arena ha fatto un concerto pieno di canzoni sulle domande che prima o poi tutti ci poniamo sulla vita e la morte, l’estasi e la violenza, la bellezza e il caos, la gioia e i fantasmi nella buca a cui ieri sera ha dedicato Carnage. Sono canzoni che non forniscono alcuna risposta a quelle domande. Bello però che abbia deciso di condividere la sua ricerca con noi.
La scaletta:
Get Ready for Love
There She Goes, My Beautiful World
From Her to Eternity
O Children
Jubilee Street
Bright Horses
I Need You
Waiting for You
Carnage
Tupelo
Red Right Hand
The Mercy Seat
The Ship Song
Higgs Boson Blues
City of Refuge
White Elephant
Into My Arms
Vortex