Ieri cadeva un anniversario particolare, una ricorrenza che di certo non sarà sfuggita alla frangia più ‘radicale’ presente al Fabrique, tutti quei “Med for it” che attendevano con ansia quasi religiosa l’arrivo sul palco di ‘The Chief’ Noel Gallagher. Era l’11 aprile, ma del 1994, una band di underdog rubati al cantiere si presentava sulle scene con un singolo improvvisato, un biglietto da visita che già in quel suo titolo ‘supersonico’ racchiudeva l’attitudine hooligana che, negli anni successivi, avrebbe gonfiato le tasche dei quotidiani britannici, tra risse con ultras rivali e sbottate cui il miglior titolista del Daily Mail non avrebbe saputo aggiungere nulla di meglio. Un quo nihil maius cogitari possit del cafone da pub, preso per il bavero della tuta adidas e gettato su un palco, ancora ubriaco, se non peggio.
Sono passati più di vent’anni da quei due adorabili cazzoni raccontati dal docu-film Supersonic, Noel è ormai un sobrio padre di famiglia, Liam – in teoria – pure, lo stesso vale per il pubblico che, dell’anthem “I’m feeling Supersonic, give me a gin and tonic“, aveva fatto uno stile di vita; ormai l’età avanza e andare in ufficio in hangover è sempre più eroico. Sarà per questo, forse, che ieri la fila di gente per entrare al Fabrique era estremamente composta, forse troppo, nonostante il diluvio universale che si stava abbattendo su Milano. Pochi tagli di capelli mods, pochissimi cori dei soliti “Soooo Sally can’t wait….” e via dicendo. Tuttavia, bastano i primi accenni di Fort Knox, lo strumentale con cui Noel apre il concerto, per cambiare immediatamente le carte in tavola, perché l’atmosfera è la stessa con cui Fuckin’ In the Bushes introduceva sul palco gli Oasis. Tolte le giacche a vento, iniziano a spuntare come funghi le casacche azzurre del Manchester City e il nome sulle spalle non è quello di Kun Agüero, ma Gallagher.
Gli High Flying Birds sul palco sono otto, compresa la ormai nota suonatrice di forbici e gli ex compagni di scuderia Chris Sharrock e Gem Archer, quasi irriconoscibile dietro gli occhiali scuri e i capelli ormai brizzolati. Le tre coriste danno alla voce di Noel l’impatto giusto e il pubblico è caldissimo quando parte il riff di Holy Mountain: anche se il singolo è tratto dall’ultimo album solista uscito lo scorso novembre, già si intravede il varco temporale che dal 2018 porterà dritti al ’96, accompagnati dal vecchio amico gin tonic con buona pace per l’ufficio il giorno dopo. La festa regale del britpop parte verso la Madchester dei primi 90’s, tra la cassa dritta di Keep On Reaching e il loop di basso di It’s a Beautiful World, per poi infiammarsi con In The Heat Of The Moment, una fra le hit più trascinanti del Noel solista. Dalla platea cominciano a intonare l’immancabile ‘Who the fuck are Man United’, inno dei tifosi blues del City, mentre sul palco, alle spalle di Noel, campeggia ben in vista lo stendardo della squadra del cuore.
Tuttavia, la prima parte del concerto, completata con la ballad Riverman e dalla danzereccia Ballad Of The Mighty I, è un sunto della nuova vita di Noel, lontano dalle sonorità che hanno conquistato schiere di adepti in tutto il mondo. I religiosi sing along iniziano solo qualche istante più tardi, con If I Had The Gun e Dream on, brani scritti da Gallagher nei giorni in cui gli Oasis iniziavano a tramontare e per questo dritti come una freccia al cuore dei nostalgici. Un esercito di telefonini si solleva, Noel sembra divertito dal pubblico 2.0, che al posto della pinta innalza il cellulare, ma il duetto tra l’artista sul palco e le voci all’unisono in platea è lo stesso di sempre.
Basta una sola frase e il cuore dei presenti si ferma: «Ciao Milano, is there any Oasis fan here?», il boato è quello dei tempi d’oro. Il Fabrique non sarà Knebworth, ma le dimensioni del locale sono perfette per l’occhiolino con cui Noel ammicca ai fedeli, ancora in apnea e sull’orlo di una crisi di pianto non appena risuonano le prime note di Little By Little. Fra il delirio collettivo non sembra passato un solo secondo dallo scioglimento della band e, neanche il tempo di immolare le corde vocali sull’ultimo ‘Why am I really here?’, che il coro “Oa-si-s-Oa-si-s” arriva come uno tsunami, seguito a ruota da The Importance Of Being Idle e dal secondo gin tonic. La festa del britpop si sta trasformando in un baccanale.
E sarà per l’alcol che inizia a farsi sentire, o per il fianco scoperto del pubblico alla nostalgia canaglia, che le prime lacrime si iniziano a intravedere su qualche viso tra quelli in platea non appena Noel, da solo sul palco con la sua Gibson J200, attacca Dead In The Water, bonus track di Who Built The Moon? ma che più Oasis non si può. Il silenzio è lo stesso che accompagnava The Chief nei primi tour solisti ai tempi della band, perché quando Noel va in acustico non ce n’è per nessuno.
La ‘beatlesiana’ Be Careful What You Wish For e l’ultimo singolo She Taught Me How To Fly – “This is for the ladies“, introduce il vecchio marpione sul palco – riportano la folla nel caleidoscopico cosmic pop sfoggiato da Noel sull’ultimo lavoro in studio, magistralmente realizzato dalla band sul palco – «ricrearlo con una cazzo di chitarra sarà fottutamente difficile», ci aveva raccontato Noel a Londra, nei giorni in cui iniziava le prove del tour. Infatti, se gli Oasis, soprattuto nei primi anni, suonavano sempre più distorti del necessario, la parola chiave per comprendere la nuova direzione High Flying Birds è “ordine”. Ogni assolo, ogni sustain, ogni effetto sugli organi è perfettamente studiato, ogni brano composto su misura per la voce di Noel, senza più preoccuparsi se la sgolata del fratello non riesce a raggiungere gli acuti. Il progetto High Flying Birds, infatti, non rappresenta solo la pace personale del maggiore dei due Gallagher dopo che la Ferrari fuori controllo degli Oasis si è andata a schiantare, ma la nuova band è anzitutto una squadra agli ordini del capo, in cui tutto suona come deve e non c’è bisogno di smezzarsi i riflettori.
«Ormai sembra una versione psichedelica degli U2», commenta una ragazza parlando del nuovo suono abbracciato da Noel per l’ultimo disco. Un’affermazione che, se Liam fosse stato presente, probabilmente le sarebbe valsa una stretta di mano da parte di Our Kid. Affermazione, tuttavia, subito ingoiata: Noel torna a imbracciare la chitarra acustica e colpisce implacabile allo stomaco con la doppietta Half The World Away/ Wonderwall. Si salvi chi può: la malinconia ormai è impossibile da arginare, i gin tonic pure. A suggellare il brindisi generale arriva AKA… What A Life!, e ora sembra davvero di stare in pista all’Haçienda nel ’95.
Nonostante lo struggimento per i tempi andati, però, è la suite The Right Stuff a regalare uno dei momenti più alti della serata. La perfezione degli High Flying Birds è spiazzante, la corista YSEÉ si prende la scena mentre Noel si defila, quasi la canzone fosse la sua Unfinished Sympathy e la cantante quello che Shara Nelson è per i Massive Attack. Da qui fino alla fine, il concerto diventa la glorificazione della nostalgia. Parte Go Let It Out, per l’unico momento in cui si avverte l’assenza del rasoio che Liam aveva al posto della voce negli anni di Standing On The Shoulder Of Giants. Poco male, alcuni tra il pubblico mettono le mani dietro la schiena e innalzano il mento al cielo: il gioco è fatto. «Milano non vi sento», incita Noel.
Chiusura consegnata all’immancabile trionfo di Don’t Look Back in Anger, affidata alla voce unisona del pubblico sui primi ritornelli, com’è sempre stato e sempre sarà, perché non puoi dire di aver amato gli Oasis se non sei pronto a sacrificare le corde vocali per Sally, e per Noel. C’è spazio anche per un omaggio, All You Need Is Love, e Noel esce di scena come è entrato, con la faccia di un musicista consapevole dei suoi mezzi, che non ha più niente da dimostrare a nessuno.
La sobrietà d’inizio concerto è decisamente sbiadita, e in ogni angolo del Fabrique risuonano i ritornelli di Live Forever da una parte o di Supersonic dall’altra: la canzone ieri sera compiva gli anni, in molti ci speravano. A concerto terminato ci sono alcuni tifosi interisti (ma veneti) che brindano alle gufate andate a buon fine mentre i bianconeri bevono per dimenticare la beffa di Madrid, seguita tra una canzone e l’altra. Nessuno vuole andare via, con gli steward del locale costretti ad accompagnare fuori gli ultimi nostalgici, fino all’ultimo sorso avvinghiati al passato come fosse l’ultima boa cui aggrapparsi in un oceano in cui gli Oasis non torneranno mai più. Un brindisi all’infinita sbornia del britpop, perché quella sì, non morirà mai.