Sono trascorsi 50 anni da quel giorno in cui Paolo Conte tornò a casa una sera con l’incisione di Azzurro cantata da Adriano Celentano, prese sua madre e il magnetofono, li condusse entrambi in cucina e fece partire il brano, facendo infine piangere sua madre: «Non so ancora quanto ci fosse in quelle lacrime, di passato o di futuro», avrebbe dichiarato poi raccontando questa storia. Quella di Azzurro, scritta con il paroliere Vito Pallavicini, fu la svolta della sua carriera come autore, il primo passo, in termini di popolarità, verso un lavoro completo che porta all’artista che ascoltiamo e vediamo oggi e che, solo nel 1974, incalzato dal George Martin del cantautorato italiano, Italo “Lilli” Greco, si decise a interpretare i propri e brani prestandogli voce, guizzi e slancio.
Sul palco del Teatro Arcimboldi di Milano, il 12 e 13 novembre, Conte ha portato in scena il suo Live in Caracalla dello scorso giugno, ora anche doppio cd e presto triplo vinile, ricordando alla platea che oltre all’autore e oltre al cantautore c’è, soprattutto, l’uomo dei concerti, uno dei nostri migliori performer, quello che ha attraversato i teatri di tutto il mondo, si è lasciato avvolgere dal fumo e per ore e ore della sua vita di uomo di spettacolo mai ha alzato la testa dai tasti del pianoforte se non per i buonasera e buonanotte di rito e, naturalmente, per presentare i suoi musicisti. Ora i tempi sono cambiati e così anche il live appare più dilatato, meno denso nei tempi, diremmo meno tirato, più dolce. Nove brani in due tempi e un bis che, nella serata del 13, lascia fuori persino Azzurro, il pezzo più atteso dal pubblico che però, infine, non fa che sorridere di questa bizzarria dell’ultimo secondo.
Ora, insomma, Conte la testa la alza eccome, addirittura lascia il piano per qualche brano che canta in piedi, mostrando i movimenti del corpo laddove per decenni ci eravamo abituati soltanto a quelli del suo capo e del suo volto. Ora non c’è più quella frenesia da session musicale quasi erotica, concentrata, feroce; ora si rallenta, si va piano e ci si gode una voce solo pressoché inscalfita dagli anni, semmai riscaldata dal tempo passato, accoccolata nella sua storia, e qualche chicca rivista in chiave lieve, come Alle prese con una verde milonga, rallentata, come intenerita dal tempo.
Non inganni però il pensiero a questa versione di Paolo Conte un poco addolcita perché, voce a parte, a restare intatta c’è quella capacità sconvolgente di trascinare l’ascoltatore nella sua bolla fuori tempo e fuori mondo, una bolla sonora e performativa che attraversa un effettivo secolo di sonorità e influenze e che solo parzialmente, e lo sappiamo molto bene, è figlia dell’Italia. Non è chiaro se siano i tredici minuti di Diavolo rosso – che, con quel lungo dibattere tra il silenzio di Conte e le performance dei solisti, restano uno dei più violenti, impressionanti e sbalorditivi momenti di musica dal vivo cui si possa assistere per quanto riguarda la produzione nazionale – o se sia il modo in cui Gershwin fa qua e là capolino da Sudamerica ma Paolo Conte è soprattutto il giro del mondo in musica, l’incrocio dello swing, della canzone italiana, di molti jazz diversi, del Sudamerica, appunto, ma pure dell’oriente, dell’India. Oggi, assistere a un live come questo da parte di una autore di canzoni italiane, pare esperienza aliena, lontana, impossibile per ricchezza, eterogeneità di ogni tassello a comporre un quadro finale omogeneo, stratificato, inattaccabile. Ci sono momenti, e non sono pochi, da dita strette ai braccioli della poltrona, passaggi di intensità ammaliante – penso, soprattutto all’esecuzione dimessa e per questo nuda e straniante di Snob o a quella de Gli Impermeabili, che Conte ritiene essere il suo pezzo più compiuto musicalmente parlando (per il testo, invece, sceglierebbe Genova per noi).
Certamente, allora, oggi, questi 50 anni di Azzurro sono un buon richiamo, proprio lei, la canzone dell’Italiano ovunque, quella che, stando ai dati, vale per il mondo come Nel blu dipinto dipinto di blu ma che, come dice sempre Conte, “non era scritta mica per far cagnara in gruppo”, quella che qualcuno – che probabilmente quel testo non l’aveva davvero ascoltato mai – voleva proporre come Inno Nazionale (offerta che Conte ha puntualmente rifiutato a ogni occasione); ma se questo è il richiamo, un concerto di Paolo Conte resta ben altra occasione, ben altra pratica d’ascolto e di attenzione, l’esempio che, elegantemente, ti ricorda la misura esatta, l’esatto incrocio tra la provincia e il mondo, tra il colto e il popolare e, oggi, tra il novecento e il suo ricordo.