Resuscitare non è semplice come dicono. Jovanotti ne sa qualcosa – era stato dato per morto artisticamente all’inizio degli anni ’90, quando Pippo Baudo gli aveva fatto fare il supergiovane a Fantastico e Mediaset gli aveva proposto di presentare Bim bum bam di fianco al pupazzo Uan. Così, una lunga jam session con la morte quella vera, quella del Corpo umano, diventa un fattore ineludibile della sua carriera in questo momento.
Lo si evince in modo evidente dal suo ultimo album, riflessivo e intimista nei testi a dispetto delle musiche stancamente accattivanti. Ma ancora di più dalla prima data di quello che si prospetta come un tour de force anche per un uomo con la metà dei suoi anni e sano come un pesce. L’affettuoso pubblico del Palasport di Pesaro probabilmente si sarebbe accontentato anche di uno show meno impegnativo di questo, lungo due ore e mezza e in molti momenti innegabilmente trascinante – ma forse pure troppo. Tanto che in alcuni casi è quasi parso che gli spettatori, per quanto reduci dai vari Jovaparty sulla Jovaspiagge, non si aspettassero da subito quello che per molti aspetti è un concerto da stadio, adattato in contenitori più contenuti.
Jovanotti per contro pare avere fretta: sembra ansioso di risollevarsi facendo leva sulle sue vecchie certezze. In primo luogo le hit (solo quattro brani dal nuovo album). E poi la festa, la vita, il big bang, la big band di 14 elementi che fa una musica della Madonna per gente divertente. È come se fosse preoccupato dell’eventualità di aver perso il suo superpotere: l’energia, energia, energia. E volesse verificarlo subito.
Il risultato è che invece di concedersi un po’ di rodaggio, sembra spingere con ansia sull’acceleratore, per ricordare a tutti che lui è sempre il più travolgente di tutti, come ha puntualmente puntualizzato durante un programma di Rai 1 dedicato al Festival della canzone italiana. E lì, la differenza tra quello che lui può fare e la sciapa offerta delle centinaia di celebrities della canzoncina tricolore è apparsa evidente. Perché in Italia tutto sommato siamo stati ragazzi e ragazze fortunati, e abbiamo visto gente capace di grandi canzoni, grandi melodie, grandi testi. Più qualcuno (pochi) capace di grande rock e qualcuno (pochi) capace di grande rap. Ma in termini di puro dinamismo e ritmica, nessun italiano si avvicina a Jovanotti, e lui a volte sembra volerlo ricordare a sé stesso ancora prima che al pubblico.
Così, in questa fase il suo “show floreale” sembra bipolare. Sospeso tra la sensazione di doversi dimostrare ancora il più energetico di tutti, e la necessità di ammettere la propria fragilità, sia con i temi delle canzoni che con dei BPM più prudenti. Anche perché la voce gracchia un po’, lui ride dicendo «devo stare attento a non fottermela subito, che ho altre 49 date, hehehe», ma è una preoccupazione legittima. E l’ipervelocità del suo freestyle (perché qualcuno non vuole ricordarlo, ma è stato il primo vero rapper che abbiamo avuto) a volte si inceppa. I monologhi tra Celentano e Bolelli sull’amore e l’amicizia sembrano un po’ balbettati, forse non riesce a leggerli bene sul prompter. A tratti si ferma, guadagna tempo, ripete «Bentornati, è bellissimo rivedervi, bentornati, è bellissimo rivedervi».

Foto: Michele Maikid Lugaresi
Nel bipolarismo, si perde anche un po’ il concept del tour che vorrebbe essere molto hippy e floreale, perché è nella iperbolica transizione funky che porta da Muoviti muoviti a Tanto³ (di 15 anni dopo) che i 9000 spettatori di Pesaro esultano come per un canestro da tre punti, o come quando appare in platea il marchigiano Gianmarco Tamberi (e con le note di colore siamo a posto). O come quando in Penso positivo si lancia in una serie di digressioni storiche, su tutte Papa Was a Rollin’ Stone dei Temptations. O quando parte Il corpo umano (la canzone) e viene accompagnata da una eccellente citazione coreografica della Danza di Zorba, con Anthony Quinn sul megaschermo e Lorenzo Cherubini con i suoi coristi sul palco, a celebrare un ballo che però è – guarda caso – un’accelerazione.
Chi scrive e forse la maggior parte di chi legge non ha molti superpoteri, e malgrado un decente (o patetico) regime sportivo, non può fare a meno di rimanere sbalordito dalle parti di concerto in cui Jovanotti va all-in. Ma allo stesso modo, non può fare a meno di chiedersi se ce la farà a mantenere, in tour, questo tour de force autoimposto. Peraltro, la dimensione dei palasport avrebbe suggerito un respiro meno dirompente – ma forse proprio Jovanotti non ce la fa. D’altra parte, non è stato con le ballate tenerose e floreali che è diventato quello che è, ma prendendosi dei rischi, anche musicali, con generi che qui spaventavano tutti. Perciò, anche se una nuova direzione artistica e umana sembrerebbe in via di definizione, è possibile che lui continui ad accelerare e a rischiare. “Senza un po’ di rischio non ha senso niente”, canta in Un mondo a parte.
A prescindere dal fatto che il pubblico sembri molto felice anche solo di cantare le sue ballate pucciose, e dire a chi ha vicino “mi fido di te”, oppure “sei il mio grande amore e il mio amore grande”. Ma forse non era questa, la vita che Lorenzo Cherubini Jovanotti sognava da bambino. Non quella del cantante confidenziale per tutti i San Valentino, ma quella di un James Brown che aspetta che qualcuno, preoccupato, gli metta sulle spalle una coperta pensando che sia arrivato al limite, per poi gettarla via tornando a scuotersi e dimostrare che per lui, il limite non c’è. Ma se quest’ansia di mostrarsi Pieno di vita resterà la sua principale preoccupazione, la nuova fase i cui prodromi si intravedono dall’ultimo album farà fatica a prendere una reale consistenza. In ogni caso, qualunque cosa accada nelle prossime puntate, inclusa la messa a punto dello show e dello showman, di una cosa siamo abbastanza certi: tutto quello che vedrà il pubblico sarà strano, ma vero.

Foto: Michele Maikid Lugaresi