Alcuni ragazzi a petto nudo camminano dentro il cerchio che si è creato in mezzo al pubblico per l’eventuale pogo cantando a squarciagola, lacrime comprese, il ritornello di Call Me Maybe, la sdolcinata super hit pop di Carly Rae Jepsen del 2011. A eseguirla stasera, in una versione a cappella con Auto-Tune è Jpegmafia, che del brano ha pubblicato una cover nel lontano 2013 nel suo Ghost Pop Tape, uscito con il precedente nome d’arte, Devon Hendryx. È un momento strano nel set dell’unica data italiana del rapper e producer di New York, incastrata tra due schiaffi sonori come Bald! e Sin Miedo; un’ingenua dedica d’affetto tra spintoni e spallate. Se la pop hit della Jepsen aveva versi di zucchero come “ci hai messo tempo per chiamarmi, ci ho messo un attimo a innamorarmi”, Bald! è infatti violenta e meschina con barre come “Non puoi dare da mangiare a tuo figlio perché hai speso per la tua auto”, a cui Sin Miedo replica con “lei ha problemi con suo padre, io con il mio barbiere, lei ha smesso con le droghe, ma ha la coca nel culo, RIP Aaron Carter”.
Questo è solo uno dei tanti momenti contrastanti che terranno in costante tensione la data di Jpegmafia all’Alcatraz di Milano. La serata non è sold out, ma il locale è piuttosto pieno e il pubblico (per lo più ragazzi maschi) è caldissimo. It’s Dark and Hell Is Hot, come da titolo del brano con cui concluderà il set. Fuori piove, dentro le magliette volano per aria già a partire dal secondo brano in scaletta, Lean Beef Patty, brano contenuto in Scaring the Hoes, il joint album di Peggy (così lo chiamano i fan) con Danny Brown: il clima in pista è subito rovente.
Lui gioca a nascondersi, volto coperto da un cappello da cowboy, nebbia come nelle peggiori notti nell’hinterland, e le luci posizionate solo alle spalle e a lato così da lasciarci intravedere niente più di una silhouette eterea. Nell’era social dove l’immagine è tutto, Jpegmafia gioco a negarsi, instaurando con il pubblico un rapporto di indipendenza, piuttosto che co-dipendenza.
Il pubblico a questo risponde a suo modo, dimenticando il rapporto reverenziale dell’ascoltatore verso il proprio idolo per riscoprire così un noi temporaneo. Guardare la folla diventa uno spettacolo più interessante (per gli occhi) di quello che possiamo intravedere sul palco. Sotto, invece, è tutto in movimento: mosh pit, pogo, wall of death, stage diving si alternano senza sosta mentre alcuni ragazzi si siedono in gruppo in centro sala per simulare una sorta di regata con delle barche a remi e altri corrono in cerchio attorno a piccoli alcuni gruppi. Il moto perpetuo continua: c’è chi si lancia in vorticose e bambinesche rotazioni di coppia e chi sfonda il confine con il mondo circense facendo ruotare una ragazza a testa in giù dopo averla appesa con le gambe al proprio collo.
Nel buio della sala si accendono le torce dei telefoni e piccoli nuclei umani si illuminano mentre si lanciano in varie sfide (come rimanere immobili nel centro del vuoto lasciato prima di un wall of death o saltare il più alto possibile scontrando i propri corpi con spollate possenti), un atteggiamento che ricorda sia i concerti punk e metal quanto le gare di perreo nei concerti brasiliani del baile funk. Il tutto accade mentre dalle casse escono beat ultrasaturi in cui l’hip hop flirta con chitarre distorte, fill impazziti di batteria, sperimentazioni elettroniche. È un concerto rap, certo, ma i canoni di riferimento sono oramai altrove.
Nel mentre Jpegmafia macina chilometri di rime al microfono, mantenendosi in una completa solitudine per i ben 23 brani eseguiti in scaletta, una buona parte pescata dell’ultimo album I Lay Down My Life For You. A spezzare questo one-man show (non c’è nemmeno il dj sul palco) è simbolicamente l’unico featuring che viene lasciato suonare in base senza alcun taglio, ovvero la strofa di Vince Staples in New Black History. E che la scelta ricada proprio su Staples ha un senso; i due rapper possono considerarsi tra i più innovativi e interessanti della scena americana dell’ultimo decennio. Come da discografia di Jpegmafia, l’ambiente sonoro gioca anch’esso di contrasti, e musicalmente ci troviamo in una terra di mezzo tra Rage Against the Machine e Sophie, sopra cui le rime folli e dure di Peggy si appoggiano a dovere.
“Che razza di rap è questo?” si chiede Jpegmafia in What Kind of Rappin’ Is This?, brano che arriva nella seconda parte della scaletta. E il suo è un rap sperimentale, futuristico, orgogliosamente innovativo, che prova a riscrivere le regole di un genere oramai definitivamente lontano da ciò che i padri avevano creato. Ma è giusto che sia così, che si sia evoluto nel suono e nelle rime e che, insieme ad esso, si sia reinventato anche il modo in cui pubblico lo fruisce.
Un concerto rap con le schitarrate è oramai il presente (ricordate quanto erano stati criticati i Run-D.M.C. per aver collaborato con gli Aerosmith nel primo successo crossover di sempre?), un pubblico rap che poga è oramai la norma. “Che razza di rap è questo?”, beh Peggy, è il rap di oggi.