I Disintegration Loops di William Basinski nascono quasi per caso nella sua casa studio a New York. Il compositore – una sorta di David Bowie della musica ambient – sta per essere sfrattato e si trova costretto a riconvertire in digitale un vecchio scatolone contenente vecchi loop degli anni ’80 registrati su nastro. I tape però sono così vecchi e impolverati che nella conversione si disintegrano, letteralmente. Da quella polvere, Basinski si troverà tra le mani la più importante produzione della sua carriera, una pietra miliare dell’ambient e della tape music. Ma non finisce qui; il giorno dopo un boato cambia per sempre la storia dell’Occidente. È l’11 settembre 2001. Basinski al crepuscolo sale sul tetto del suo palazzo e immortala le Torre Gemelli in fumo. Quest’immagine diventerà la copertina dell’album.
Che il Primavera Sound, quindi, decida di inaugurare la sua tre giorni così, portando questa storia all’Auditori (l’unico palco al chiuso del festival, un vero e proprio auditorium da 2000 persone), è piuttosto simbolico e azzeccato in questo momento storico in cui la fragilità del nostro mondo è ancora una volta assediata da guerre sempre più feroci e prossime. Basinski, in più, decide di aggiungere un ulteriore livello a questa trama: i suoi amati tape infatti vengono suonati da un’orchestra di 18 elementi, impegnata nell’impresa impossibile di simulare a livello strumentale la distruzione avvenuta nella digitalizzazione. Il risultato è un’esibizione emotiva e fragile, proprio come nella natura dei Disintegration Loops (proprio come i nostri tempi, verrebbe da aggiungere), in cui la certezza della ripetizione viene continuamente sabotata.
A fine esibizione Basinski prende il microfono per sottolineare l’importanza della musica dal vivo. Indicando i suoi concertisti: «Questi musicisti hanno studiato musica tutta la vita, hanno perfezionato al massimo la loro tecnica solo per portare quest’arte a voi. Capite? Bisogna esserne grati». Boato in sala.
Il tema della musica suonata sembra essere la chiave di lettura del day 1. Non è un caso infatti che, nonostante la grande percentuale di pubblico piuttosto giovane, la maggior parte della giornata di giovedì punti proprio sugli strumenti sul palco (la grande esclusa infatti è la trap dopo i live deludenti degli scorsi anni). E tra l’altro tutte performance a fuoco: gli headliner Vampire Weekend e Pulp, i Deftones, Beth Gibbons in solitaria uscita dai Portishead, i Blonde Redhead, Duster, Yeule, L’Impératrice, le Mannequin Pussy, gli Arab Strap (qui una nostra recente intervista), Amaarae e la compositrice e chitarrista danese ML Buch, una delle performance migliori della serata anche questa tenutasi all’interno dell’Auditori, vero tempio in cui rifugiarsi tra i flussi migratori da palco a palco. Certo il mainstage si chiuderà con i Justice, ma anche nella loro elettronica c’è un che di suonato (intendiamo nel suono, dal vivo si limitano a spippolare qualche mixer lasciando la scena a un impressionante impianto luci), sarà un po’ per quell’effetto nostalgia che fa la French touch con il suo fortunato incontro tra electro e rocker.
Ecco, la nostalgia. Questo primo giorno di Primavera – escludendo i palchi dedicati ai dj set (come ad esempio quello della Boiler Room con code chilometriche) – è un grande tuffo in un passato recente. Non si torna alla pura nostalgia retromaniaca dei bei tempi che furono, ma sembra tutto un lungo omaggio a quei primi anni 2000 in cui il festival stesso è nato. Per metà dei presenti è un ritorno all’adolescenza, all’università, ai primi anni adulti della vita, per l’altra metà (che non troveremo ai Justice o ai Vampire Weekend, ma più facilmente da Peggy Gou o da Evian Christ, Kode9 o A. G. Cook – qui la nostra recente intervista – uno dei picchi della notte) è un tuffo in un passato sconosciuto che molto si scosta dal loro presente.
L’effetto è infatti quello di un festival diviso in due, in cui queste due anagrafiche faticano a convergere. Ora è divertente, a suo modo caratteristico, per il futuro bisognerà probabilmente capire questa convivenza tra queste magliette degli Shellac e questi outfit da Coachella.
E proprio attorno agli Shellac si crea il momento più emotivo e onesto di questa giornata a dimostrazione di come il ricordo di un passato non debba per forza essere solo citazione o nostalgia. L’omaggio del Primavera Sound al suo amico e resident Steve Albini è infatti il Momento del day one. Per chi frequenta da anni il festival, e ne ha visti tutti i cambiamenti nel bene e nel male, gli Shellac di Steve Albini sono stati un punto fermo, la band feticcio che anno dopo anno è tornata con precisione svizzera a calcare questi palchi. Con la scomparsa prematura di Albini, il Primavera ha perso un pezzo della propria storia.
L’omaggio è stato quindi doveroso: un palco a lui dedicato (guarda caso quello solitamente più legato alle varie forme del rock, della musica suonata) e una listening session di To All Trains, l’ultimo album degli Shellac pubblicato a pochi giorni dalla morte del suo leader. Tutto giusto. Soprassediamo sull’errore di gestione della fila della Boiler Room che a metà dell’ascolto si ritrova a tagliare in due la platea venuta a rendere omaggio a Albini tra chiacchiericci disinteressati e headbanging ironici. Preferiamo ricordare l’immagine del palco, con un mazzo di fiori a lato, con gli strumenti preparati e cablati come se gli Shellac dovessero esibirsi da un momento all’altro mentre nell’impianto sono sparate le sferzate rock di Albini e dei suoi compagni di band. Rest in peace.
Facendo un passo indietro, il festival nel suo complesso rimane più o meno fedele alla scorsa edizione. La geografia è cambiata al minimo, perdendo due piccole appendici (il palco Steve Albini viene inglobato nell’area attorno alla Boiler Room mentre un altro scompare a favore del Red Sound Studio), ma guadagnando in fluidità e organizzazione che – con questi numeri – rimane comunque al limite dell’impeccabile se non per le lunghe code per l’acqua gratuita.
Noi concludiamo la giornata con circa 16 km percorsi esclusivamente all’interno dell’area del festival. Fateci riposare che abbiamo ancora due giorni davanti.