Al concerto dei The Blaze a Milano arrivo con un ricordo fantastico: quello del loro set al Primavera, in orario decisamente notturno (che ore erano? Le 3? Le 4? Si perde spesso la concezione del tempo da quelle parti). Di fronte al mare, l’ultima birra in mano, hanno fondamentalmente resettato le energie di tutto il pubblico presente.
Fast forward, Milano, Fabrique. È marzo, fa freddino e abbiamo delle felpe e non dei pantaloncini. Ma siamo pronti a scaldarci.
Ammetto che Dancehall l’ho abbandonato presto. Il disco è asciutto, piatto, con pochi colpi in canna davvero di valore. C’è un motivo, però. The Blaze sono un duo che hanno bisogno di un’altra parte. Anzi, sono anche un’altra parte. Quella visuale, come detto in più interviste, è un pezzo del gioco, tanto quanto quella musicale. I ragazzi lo sanno, e dal vivo non lo dimenticano.
Iniziano dentro un cubo, che si apre presto per rivelare due maxi schermi e un po’ di macchine che i due smanettano mentre ballano e cantano e provocano infarti alle signorine delle prime file. Evocano dei mondi paralleli, onirici. E lo sanno fare bene.
È un’esperienza totale, dove la gente si abbraccia e si bacia e fa stories. E per una volta nessuno si lamenta. Perché qui non c’è da viaggiare ad occhi chiusi, non c’è da immaginarsi ed evocare nulla, non c’è da emozionarsi con i suoni. Bisogna guardare, filmare, condividere.
La gente si scalda sulle hit, Heaven, She, Territory… Ma alza i telefoni su Rise, che è abbinato al video Burning Cars dei Superflex, si emoziona su Faces, accompagnato dall’opera di Taiyo Onorato & Nico Krebs.
Per una volta siamo tutti d’accordo: telefoni in alto. Si può ballare lo stesso, senza togliere gli occhi dagli schermi.