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Queens of the Stone Age agli I-Days, un ballo liberatorio dopo un’attesa snervante

Prima il timore che lo show all’Ippodromo San Siro di Milano venga cancellato come quello all’AMA Music Festival, poi finalmente 75 minuti di musica grandiosa, anche se Josh Homme non è al 100%. Recensione e scaletta del concerto

Foto: Bianca de Vilar/Redferns

«Voglio vedervi ballare e muovere», ha detto Josh Homme e loro l’hanno accontentato. La prima l’hanno estratta dal pit durante Little Sister, a concerto appena iniziato. Gli ultimi, distrutti devastati felici, durante la bolgia di Song for the Dead. In mezzo altre 13 canzoni in cui Homme e la sua banda di pericolosi spietati chiassosi precisi infoiatissimi musicisti hanno messo in scena un grand macabaret (cit) rock’n’roll, una sinfonietta elettrica sulla sopravvivenza letterale e metaforica d’un certo maschio americano, quello strambo e pieno di voglie oscene, a volte imperturbabile e a volte stranamente sensibile. Nella specie, uno con una moglie che lo accusa pubblicamente di violenza e con un cancro con cui fare i conti, uno che perciò desidera disperatamente tornare a suonare in giro perché solo sul palco non si sente in gabbia. Uno che vuole andare a registrare uno speciale dal vivo, con tutti i posti che ci sono al mondo, alle Catacombe di Parigi.

E perciò sul concerto degli Queens of the Stone Age tira quest’aria strana che lo fa sembrare un ballo liberatorio sulla fine del mondo, forse anche in faccia alla morte. Prima però è stata una giornata d’infame incertezza, in cui s’è temuto che il problema di salute (pare proprio del cantante) che ha fatto saltare il concerto dei Queens all’AMA Music Festival non fosse rientrato e potesse perciò portare alla cancellazione anche dello show agli I-Days. L’account Instagram del festival promette «vi terremo prontamente aggiornati», ma non lo fanno. Si fa, non si fa? C’è gente che viene da lontano, vorrebbe sapere. A una certa ora appaiono gli orari della giornata, prima dei Queens ci sono Royal Blood, Vaccines e Kemama, ma non c’è alcuna comunicazione precisa e definitiva fino a un paio d’ore prima del concerto, quando appare sui social del gruppo la locandina della data all’Ippodromo San Siro accompagnata la scritta «Milan, see you soon». Mai letto tante bestemmie italiane sui social d’una band americana.

A Roma hanno descritto Homme come stanco e sofferente, agli I-Days s’è capito soprattutto verso la fine che non è del tutto a posto. Sotto un impianto luci piramidale, la band attacca con Little Sister, il cui titolo flirta col pezzo omonimo di Elvis e dove si racconta del tentativo d’entrare nelle mutandine d’una ragazzina. «We shall have a good fucking time», promette Homme ed è di parola. I primi pezzi che si sentono raccontano una lotta. Smooth Sailing è la dichiarazione di chi pensa d’essersi messo il peggio alle spalle, My God Is the Sun una specie di rito di purificazione col fuoco e con l’elettricità. In Paper Machete è facile vedere un’accusa all’ex moglie Brody Dalle e al suo carattere manipolatorio, Emotion Sickness redime ogni sofferenza con una coda punkeggiante pazzesca.

Il tour si chiama The End Is Nero, gioco di parole con “the end is near”, la fine è vicina, ma non c’è spazio per toni lamentosi o sentimentalismi. I Queens of the Stone Age sono un perfetto meccanismo musicale che prevede riff robotici che s’incastrano come ingranaggi pensati da un artigiano perverso e un’energia liberatoria presa dal vecchio rock’n’roll e caricata d’un senso di minaccia incombente. Homme è il bad motherfucker che ne ha viste e fatte d’ogni tipo, il bastardo che la nostra bella sensibilità contemporanea non riesce più ad accettare, il tizio che ha un segreto da nascondere e che sembra uscito da una B movie pieno di sesso, droga e localacci.

Addosso a lui la chitarra sembra un giocattolino, il bassista Michael Shuman tiene lo strumento basso tipo vecchio punk, il chitarrista Troy Van Leeuwen (bravissimo) pare uscito da un film di Kaurismäki. Dietro di loro stanno più defilati, ma fondamentali il polistrumentista Dean Fertita e il batterista Jon Theodore. Tirano fuori dagli strumenti un suono notevole, tra ritmi che la gente segna picchiando i quattro quarti coi piedi per terra, momenti d’euforia, pugni allo stomaco, riff cantabili che effettivamente vengono intonati dal pubblico, che se ci pensate non è una cosa che succede tutti i giorni. E poi giochi di vuoti e pieni spaventosamente forti, staccati vertiginosi, timbri di chitarra fighissimi, tipo Duane Eddy che diventa Godzilla.

È un gran concerto e lo è nonostante le carenze strutturali del gruppo. Homme non è un gran cantante, non lo è mai stato, non ha una voce interessante, non è particolarmente espressivo. Non è nemmeno un gran melodista, eppure la potenza delle esecuzioni salva tutto e rende i pezzi monumentali. E che gran finale. Prima il “gimme toro, gimme some more” di Millionaire, poi No One Knows e il riff micidiale cantato in coro da tutti, infine una Song for the Dead metallica ed esaltante che non sembra finire mai, il ritorno al tema della vita come studio sulla morte e il pogo che scatena. Per dirla con l’italiano di Homme, «che bellissimo!».

Alla fine s’ascoltano 15 pezzi per 75 minuti di musica, meno di quelli che uno s’aspetta dall’headliner di un festival rock in Italia, meno della data a Roma, meno dei 16 che erano in scaletta. Homme appende la chitarra al microfono e se ne va visibilmente provato, il pubblico sfolla, qualcuno si lamenta perché è durato poco, io son felice d’aver visto una delle migliori rock band in circolazione. Alla fine si è fatto ed è stato bello. Forse siamo stati fortunati. Forse, per parafrasare quella canzone, per una sera il cielo ci ha sorriso. E ci dispiace per gli altri.

Set list:

Little Sister
Smooth Sailing
My God Is the Sun
The Evil Has Landed
Paper Machete
Emotion Sickness
I Sat by the Ocean
Time & Place
Go with the Flow
The Lost Art of Keeping a Secret
Carnavoyeur
Make It Wit Chu
You Think I Ain’t Worth a Dollar, but I Feel Like a Millionaire
No One Knows
Song for the Dead

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