Alessandro Barbero una volta ha detto che Il Maestro e Margherita di Bulgakov è uno dei più grandi romanzi mai scritti. A pensarla allo stesso modo non c’è soltanto il Professore e una lista infinita di persone tra cui il sottoscritto, ma anche Kid Yugi. Proprio dal suddetto classico della letteratura russa ha preso ispirazione a piene mani il giovane rapper di Massafra nel suo ultimo album, I nomi del diavolo. «Mi sono ispirato a livello estetico al romanzo», racconta Yugi col suo sguardo sempre un po’ scostante, tutto vestito adidas Originals, nel mezzo di una sala di hotel di fronte allo stadio Maradona di Napoli. «Mi piaceva la storia del Diavolo che arrivava a Mosca sotto le spoglie di un mago e sconvolgeva tutto. E poi anche la storia d’amore tra Margherita e il Maestro, di lei che per salvarlo dalla malattia mentale fa di tutto, persino diventare una strega».
Ammetto di aver approfittato dell’occasione per fare a Yugi una domanda che non c’entrava proprio un cazzo con il contesto, ovvero il glorioso terzo episodio del Red Bull 64 Bars Live a Scampia. Però mi sono tolto lo sfizio di fare una domanda colta a uno dei rapper più colti, pregni di struggle e quindi interessanti della scena rap attuale.
I suoi testi non sono soltanto un calderone di frustrazione e spleen indotte da una provincia, quella di Taranto, che per chi non viene dal nulla e non ha il padre imprenditore può essere soffocante. Forse è anche per questo che sceglie di entrare sul palco dentro un cubo di plexiglass e di farlo a pezzi con l’asta del microfono per uscire all’aria aperta. Una metafora abbastanza evidente di com’è andata la sua vita. Sul palco, poi, come una costante presenza minacciosa, tre comignoli sparafumo simboleggiano il grande mostro della sua terra: l’Ilva.
Le rime che scrive Yugi sono una primavera di citazioni che vanno dal cinema alla politica, dall’arte, appunto, alla letteratura. Non a caso il suo freestyle, il primo in scaletta, è uno dei più mostruosi dal punto di vista non tanto della tecnica quanto dello spettro di temi che sfoggia. Un fiume di input che manda in overload il processore di chi ascolta. E così è successo venerdì 4 ottobre sul palco di Scampia. Stupore e meraviglia.
Se però molto del panorama rap che lo circonda non ha la stessa profondità, non è certo colpa di chi scrive rime. «Se la domanda è quella di una narrazione semplificata, allora anche l’offerta del rap sarà così. Ognuno si esprime come meglio crede, ognuno ha esigenze diverse nell’esprimersi. Sono semplicemente una persona che si esprime a suo modo».
«Sono emozionatissimo e contentissimo di esserci stasera, soprattutto per dare un messaggio di riscatto per il sud tutto. Sono molto legato a queste tematiche, senza fare campanilismi sono legato al Meridione. Quello che succede a Scampia è speciale».
Nella sua mente riflessiva e indagatrice c’è però un costante gioco di opposti, uno struggle interno che è anche il motore creativo migliore. «Il successo mi ha insegnato che non è quello che volevo. Non lo è mai stato. Ho sempre fatto questa musica senza pormi l’obiettivo di diventare famoso, proprio non me l’aspettavo. Ogni giorno che passa realizzo che non è la mia zona di comfort. La cosa che invece non potevo sapere è che quando sei un personaggio pubblico è come se fossi appeso a un filo. Basta una folata minima di vento, un’alitata per farti cadere. E questo anche se non hai fatto niente, se sei una persona che riga dritto ed è in pace con se stessa e col mondo. Se la massa si organizza nell’odiarti sei finito. Questo senso di costante incertezza, d’inquietudine è una roba che io mi vivo abbastanza male».
Forse Yugi dovrebbe prendere spunto da uno come Massimo Pericolo, altro beniamino in tuta blu adidas Originals all’evento, che invece sin da ragazzino ha imparato a padroneggiare non solo le arti marziali, ma anche quelle meditative. E questo ha portato solo benefici. «È una cosa che consiglierei tantissimo ai miei colleghi, ma perché so che fanno un lavoro davvero stressante come tanti altri lavori. La vita al giorno d’oggi di base è stressante. La meditazione è più importante. Tanti si allenano e fanno lo sport che gli piace. Ma qui non si tratta di fare una cosa che ti piace. La meditazione ti serve a sviluppare una capacità che abbiamo tutti ma che non usiamo mai, cioè di rimanere più concentrati sul presente. Questa cosa ti consente di rimanere più tranquillo e di gestire molto meglio lo stress. È una cosa da fare tutti i giorni, come dormire. Solo che devi scegliere di farla. Aiuta tanto».
Tant’è che per il suo ingresso trionfale sul palco, Vane (ovvero il signor Pericolo) sceglie di farsi calare dall’alto in posizione meditativa come un piccolo Buddha. Poi scende, spara come una mitragliatrice i suoi due 64 Bars e si concede alcune sue hit. La terra trema quando parte 7 Miliardi, ma c’è un momento di canto collettivo quando chiude il suo set con Non parlarmi. «Se quella di prima mi ha fatto diventare famoso, questa mi ha fatto diventare adulto», commenta prima del suo ultimo pezzo.
Ma visto che l’intero senso dello show è quello di portare il rap alle origini, allo stato puro, per Dat Boi Dee è stata anche l’occasione di tornare, come spesso fa nei tour di Geolier, alla sua postazione originaria: dietro la consolle. È lui in realtà il primo in scaletta a salire sul palco, con uno stuolo di ballerini e ballerine in tuta adidas Originals come lui. Il brand del trifoglio, main partner dello show, ha iniziato così la sua stagione autunnale di eventi musicali, che proseguirà con Play With Music in collabo con AW Lab (il contest che mira a scoprire giovani emergenti della scena musicale italiana, tra Roma, Napoli e Bari, rispettivamente il 5, 12 e 19 ottobre) e con C2C Festival a Torino (dal 31 ottobre al 3 novembre, sicuramente ci saremo anche noi). Con l’obiettivo di costruire dialoghi innovativi tra moda e musica, adidas Originals si fa promotore di manifestazioni musicali, offrendo agli artisti una piattaforma per esprimersi e connettersi con il pubblico, sostenendo la comunità musicale e promuovendo progetti che celebrano la diversità, l’inclusione e l’energia unica della cultura contemporanea. Insomma, non solo leader nel settore sportivo, ma anche catalizzatore di creatività e ispirazione nel panorama artistico globale.
Tornando a Davide. Ben prima di iniziare a fare i beat, il produttore si è fatto le ossa mettendo dischi in un po’ tutti i principali club di Napoli. Alla domanda che divide sempre le opinioni tra i DJ, quella per cui è più importante la tecnica o alla selecta, Davide risponde con estrema filosofia, trovando il proverbiale mezzo aristotelico: «È come se una fosse la conseguenza dell’altra. Saper fare la selezione brani significa conoscere la cultura. E conoscere la cultura impone che tu conosca la tecnica, quindi è come se fosse un cerchio infinito, dove ogni punto ti riporta sempre allo stesso punto».
E così Dat Boi Dee, dalla sua console ha diretto l’intero show. Eppure, sente che comunque i produttori non hanno ancora ottenuto un riconoscimento alla pari dei rapper che cacciano le rime. «È comunque un buon periodo, siamo sotto un buono spotlight». Poi lui ha Dr. Dre tatuato sul polpaccio, quindi è facile vedere davanti ancora tanta strada da fare se come reference prendi forse il più grande produttore e imprenditore hip hop della storia della musica.
Trionfale anche lo show di Tony Effe, che si presenta sul palco con un corpo di ballo di sole ragazze (chi l’avrebbe mai detto) ed esordisce con il suo 64 Bars tanto discusso nelle ultime settimane. E poi ancora Artie 5ive e Guè, ognuno portando una sua parte di Milano in piazza Ciro Esposito. Colossi del rap di ieri, di oggi e di domani sullo stesso palco. Arriva persino la quota comica con Nello Taver, che entra vestito da santo in processione e poi blasfemamente saluta la polizia che sta sotto e dietro il palco confessando di essere un pochino alterato, come dire, a livello chimico.
Tra questa sfilza di omoni grossi e pelosi per fortuna fa la sua apparizione anche Rose Villain, come ospite non annunciata. Avvolta in una tuta in acetato nera e minigonna (indovinate il brand?), con la sua grazia da regina elfica ha portato una ventata di aria fresca di estrogeni su un palco che rischiava di essere troppo testosteronico. È nella consueta Chain finale, quella dei duetti tra i vari ospiti, che la goth queen ha potuto sfoggiare la sua grazia da femme fatale burtoniana, prima su Michelle Pfeiffer feat. Tony Effe e poi su Come un tuono con Guè.
Il gran finale però è stato tutto per i napoletani dai napoletani. Dopo una breve incursione di Lele Blade (prima della Chain e dopo Nello Taver), tutta l’attenzione si sposta verso le Vele. Lì, su un piccolo pulpito c’è Geolier che, dopo il boato della folla per la sorpresa di vedere il Re indiscusso di Napoli, inizia un monologo da brividi che tocca temi impossibili da evitare, visti i tragici eventi che hanno reso protagoniste le Vele negli ultimi mesi.
«Questo posto non è come un altro. Questi grossi muri in cemento dove la gente vera vive sono diventati attrazione turistica. Quando ero più piccolo tutti i miei amici rapper volevano essere portati qui. Spesso proprio per questo si è parlato della volontà addirittura di sfruttare questo luogo così importante per noi solo per farsi delle foto iconiche, ma come si fa a sfruttare l’immagine di una madre? Perché questo per me è questo posto, è come se fosse mia madre». I peli di chi ascolta si rizzano in un’onda di brividi.
«Forse invece dobbiamo pensare che tutti abbiamo un po’ di colpa quando accadono tragedie come quella che è successa qui, che da soli non si combatte il degrado e l’abbandono, ma dobbiamo volerlo».
«Abbiamo una fortuna che in pochi hanno: siamo cresciuti in strada, ci siamo incontrati in piazza. Da qui dobbiamo ripartire. La musica può curare, può dare più che una speranza, può creare un futuro, dare una prospettiva. Che se non è la musica può esserlo qualcos’altro. Che non c’è bisogno di fuggire, che si possono migliorare le cose qui. È successo a me, può succedere a voi. Eravamo niente, siamo Campioni in Italia. Da figlio di Napoli, di Secondigliano, a tutte le figlie e figli di Napoli, Secondigliano, Scampia e tutte le periferie del mondo intero: queste barre sono per chi crede in un futuro più bello per tutti».
Magicamente, senza interrompersi, comincia ad attraversare la piazza in mezzo alla gente, scortato dalla security, per dirigersi sul palco. Il monologo è diventato un freestyle. Quando arriva sul palco, esplode il suo Campioni In Italia, forse a mani basse le più grandi 64 barre inedite mai scritte finora per il format. Lo raggiungono sul palco poi gli SLF, crew composta da MV Killa, Yung Snapp, Lele Blade, Vale Lambo e NIKO Beatz. Li vedi saltare, tutto attorno il pubblico indemoniato, fuochi d’artificio per il finale del terzo capitolo del live a Scampia: sul momento penso che sono la cosa più vicina alla Odd Future che abbiamo in Italia. Le movenze, la dedizione, la coolness, la qualità delle rime e lo stile nel gestire gli impasse (come quello di Sanremo) fanno pensare a qualcosa che siamo sempre stati abituati a vedere oltreoceano. Invece è tutto made in Napoli. Forse Geolier è il nostro Kendrick Lamar. O forse neanche Kendrick Lamar è come Geolier.