Rolling Stone Italia

Il live di Lil Yachty a Milano ci ha dato una speranza: c’è vita oltre la trap

L’artista americano ha diviso il concerto in due con una sezione di hit trap e una psichedelica (con band di sei elementi) dedicata al suo ultimo disco ‘Let’s Start Here’. E tra le due, non c’è competizione: il futuro è lontano dalle 808

Foto: Sergione Infuso/Corbis via Getty Images

Sarà che doveva farsi perdonare un ritardo di cinque mesi (la data era infatti prevista per lo scorso 14 dicembre), ma Lil Yachty si presenta sul palco del Fabrique di Milano alle 9 in punto, puntuale come non siamo abituati qui in città. Sul palco però non è solo, come ci hanno abituato rapper e trapper in tour in Italia, ma accompagnato da sei musicisti (quattro strumentisti e due coriste), e già questo di per sé è una novità.

Una novità così come lo è stato il suo ultimo Let’s Start Here (qui la nostra recensione), l’album della sua rivoluzione personale che ha spostato l’artista da trapper canonico a principe della neo psichedelia black, sbloccandolo dalle sabbie mobili della trap di questi tempi. A 27 anni, e in questo periodo storico, un mezzo miracolo. Ed è proprio da qui che parte l’artista della Georgia per inaugurare la data italiana della tranche europea del Field Trip Tour che lo vede girare l’Europa con la sua Concrete Family.

Partiamo dalla forma: il set è diviso in tre parti. La prima e l’ultima sono con la band e si concentrano sulle canzoni di Let’s Start Here, quella centrale è invece in solitaria e dedicata alle hit trap, da Coffin a Flex Up, da Broccoli a Yacht Club con il defunto Juice WRLD, ricordato da Yachty con un attimo di silenzio e interrotto in parte dalle urla del pubblico più giovane e ubriaco pubblico in sala. Ed è proprio questa struttura a portare a qualche riflessione. Nell’epoca delle ere, giusto per usare un termine che piace al mondo pop, Lil Yacthy con Let’s Start Here è entrato in quella della musica suonata, della psichedelia, dei pezzi che non hanno bisogno di drop e momenti urlati per incidere e lasciare una traccia, lasciando così che la musica possa fluire senza i confini stretti dei canoni trap, delle 808, degli hi-hat forsennati, dell’attitudine fan pleasure che oramai ha divorato il genere. Il fatto, quindi, che la magia della psichedelia venga qui spezzata a metà da 30 minuti larghi in cui il nostro si presta a una quindicina di hit trap è una concessione ai fan che finisce per mortificare la resa generale dello show. Facendovi i conti capirete che Yachty in questa sezione si sofferma per non più di una strofa, un ritornello o un drop a pezzo, per poi skippare immediatamente a quello successivo (con grandi parti di simil-playback). Ma se è l’artista stesso a trattare quei brani non come canzoni, ma come pezzetti di musica fine a sé stessi, perché dunque dovremmo farlo noi? Cosa c’è di interessante in un best of bignami di metà concerto?

Se la psichedelia, per definizione, è un viaggio in cui andare a dissolvere il proprio ego (e Lil Yachty sembra seguire appieno questa definizione nei momenti con la band dove – caso più unico che raro per un trapper – lascia tranquillamente il centro scena, e a volte anche l’intero palco, ai suoi musicisti, come quando si eclissa per far eseguire un arrangiamento strumentale di In the Air Tonight di Phil Collins, scelta quantomeno interessante), la parte centrale trap è un bad trip. Tra urla, giovani che si denudano ruotando le magliette in aria e quant’altro, la magia – perché la psichedelia a suo modo è magia – viene disinnescata dallo stesso stregone che ne conduceva il rito. E anche il tentativo di recuperarla nell’ultima sezione, con quattro pezzi (tra cui le riuscitissime We Saw The Sun! e The Black Seminole), non fa che lasciare un po’ di amaro in bocca. Non resta che chiedersi: non c’era proprio modo di sfruttare di più la band, magari di ri-arrangiando qualche hit trappona in chiave psichedelica, provando a mischiarne due o tre assieme in un atto magico piuttosto che lanciarle così a piccoli pezzetti nella sezione centrale?

Il pubblico della trap è chiaramente goloso di quei momenti, li sottolinea urlando, saltando, pogando, ma il coraggio proposto da Yachty in Let’s Start Here è ben superiore al suono di quella trap, che sembra provenire da un passato oramai superato. E il fatto che una band così prodigiosa come quella formata dai membri della Concrete Family venga limitata a due spezzoni da 20 minuti l’uno è una scelta difensiva, cosa che non dovrebbe far parte dell’indole del visionario, dello sperimentatore, di uno con la voglia di fare un salto, di rifare tutto da capo, come ha voluto dichiarare Yachty con quell’album benedetto.

In un momento di p(i)attume generale nella musica e, in particolare, della musica urban, Lil Yachty dimostra di aver tutte le carte in regola per permettersi quel salto. Ora deve solo avere il coraggio di farlo davvero, totalmente e senza remore, e abbracciare l’era della psichedelia. Quei 40 minuti in cui ieri sera è successo sono stati la cosa più fresca che abbiamo sentito in città (nell’orbita trap) da anni. Yachty, non abbandonarci adesso, let’s start here.

Iscriviti