Che palle con ‘sti cellulari! Scusate, lo scrivo subito almeno non ne parliamo più.
C’era molta attesa per quella che era la giornata meno chitarrosa della quarta edizione di Firenze Rocks, con una buona dose di curiosità su come il pubblico italiano dei megafestival avrebbe accolto ospiti come Tedua o la superstar mondiale del rap Nas. E poi ovviamente c’è lui, John Frusciante, nuovamente nel gruppo, da sempre vero e proprio termometro delle fortune artistiche dei Red Hot Chili Peppers.
L’intro del concerto del gruppo lascia presagire cosa accadrà: un’apocalisse funk generata da Chad Smith (clonate quest’uomo!), con Frusciante e Flea che dimostrano da subito una ritrovata ed evidente sintonia. La jam iniziale sfocia presto in Can’t Stop mentre Kiedis – per una volta munito di maglietta – entra in scena e attacca a cantare.
Non sono neanche passati cinque minuti dall’inizio del concerto e i californiani si sono già presi la Visarno Arena. Son tutti fuori di testa. In meno di cinque minuti. Vedere alla voce: come si comincia un concerto.
Sul palco Smith è un martello, Flea non sbaglia niente e anche Frusciante appare tonico e presente, con la voglia di prendersi la scena, senza limitarsi al compitino come troppe volte gli abbiamo visto fare. E’ Kiedis il più compassato dei quattro: scambia pochissime battute col pubblico e ci mette ben tre pezzi per togliersi la maglietta (ora si che ti riconosco). I pezzi sono spesso intervallati da jam, singole o collettive, virtuose e piene di groove, che terminano sempre in qualche grandiosa hit radiofonica. È un dualismo curioso e interessante questo, che mette da una parte la band che i Peppers avrebbero potuto essere e dall’altra quella che hanno scelto di diventare. C’è moltissimo mestiere nella loro performance, suonano tirati e potenti, per cui anche i brani che su disco sono più tiepidi, come These Are the Ways ad esempio, si incendiano nella notte fiorentina. Molto bene anche Dani California, Aquatic Mouth Dance è una lezione di basso per aspiranti suicidi, mentre Otherside è praticamente un karaoke collettivo a cielo aperto.
Per capirsi: se anche gli infermieri e gli operatori della protezione civile si mettono a cantare mentre filmano il concerto (ah, a proposito: anche basta con ‘sti cellulari), beh qualcosa vorrà pur dire.
È vero che il (ri)ritorno del figliol prodigo Frusciante esclude de-facto le composizioni di Navarro e Klinghoffer (i chitarristi che presero il suo posto in occasione dei due abbandoni) ma è anche vero che con la scaletta si sarebbe dovuto e potuto osare di più. Tutto il repertorio è pescato da Californication in poi, con la sola Give It Away a rappresentare il glorioso passato che fu. Senza necessariamente andare a scomodare una retro-perla come Mother’s Milk, lascia perplessi la scelta di non includere un maggior numero di brani da Blood Sugar Sex Magik, vero e insuperato capolavoro del quartetto. Mancano completamente gli anni ’90, quelli della prima fuga di Frusciante, una roba all’epoca talmente inaspettata e clamorosa che dette involontariamente vita a un libro diventato manifesto generazionale, proprio come il disco che ne ispirò la genesi. Si chiude con By the Way e che nessuno si azzardi a regalare una camicia decente a Frusciante, che ci piace così.
Prima dei Peppers è toccato a Nasir Jones, meglio conosciuto come Nas, uno dei più grandi rapper della storia, confrontarsi col pubblico italiano in un contesto non semplice. Sul palco con lui, oltre all’inevitabile dj, c’è un batterista che farà tutta la differenza del caso, aggiungendo un apprezzato rinforzino – come avrebbe detto il Conte Mascetti di Amici miei – al sound. La scaletta di Nas guarda al passato, con tanti pezzi presi dal capolavoro Illmatic, oltre ad alcune hit più recenti. Ci mette un po’ a scaldare il pubblico, complice anche la barriera linguistica («do you understand me?» chiede a un certo punto), ma il concerto fila via liscio e senza intoppi. «This is my first time in Italy», dice il fenomeno di New York, dimenticandosi evidentemente di quando venne a Milano nel 2011 assieme a Damian Marley, ma pazienza, gli si vuol bene lo stesso.
Tedua riesce a portare a casa la pelle e – gli va riconosciuto – non era facile: si gioca le carte della trasparenza e dell’umiltà per portare (parte) del pubblico dalla sua e ci riesce. Ottima la soluzione di infilare Pretty Little Ditty, degli stessi Peppers, sotto le sue strofe: è un omaggio che serve a contestualizzarlo meglio in uno scenario rock. E non fate finta di non conoscerla, che quando la campionarono i Crazy Town con Butterfly eravate tutti lì a sognare Orange County. A differenza di Nas, il rapper genovese ha una vera e propria band: i fan non gli mancano, dimostrando ulteriormente la trasversalità della giornata ma anche del pubblico, mentre chi non lo apprezza – se non altro – evita di rompere i coglioni a lui e al prossimo. Bene così.
Il pomeriggio, lungo e caldissimo, era stato inaugurato dai Savana Funk prima e da Remi Wolf poi: i problemi di volume della prima sera sono solo un brutto ricordo e domani è già ora di fare i bagagli. Non prima di aver visto i Metallica.
PS Che palle ‘sti cellulari!
PPS No, Under the Bridge non l’hanno fatta.