Bastano le prime note di una chitarra hollow body distorta e carica di feedback per creare il mondo dei Jesus and Mary Chain. William Reid accende il pedale e apre la porta al rumore bianco del gruppo alimentandolo ad ondate come in un sogno psichedelico con cascate di note, implacabile e solenne, mentre suo fratello Jim con la voce trascinata dice poche parole al pubblico dell’Alcatraz di Milano: «Siamo i Jesus and Mary Chain e siamo qui per suonare il nostro secondo album, Darklands. Poi faremo molte altre canzoni».
Il 12 settembre 1998 William Reid aveva segnato la fine della band lasciando il palco dopo 15 minuti durante un concerto sold out alla House of Blues di Los Angeles («Dopo ogni tour volevamo ucciderci», ha detto Jim Reid, «e dopo l’ultimo ci abbiamo provato»). Dopo la reunion al Coachella del 2007 benedetta dalla presenza di Scarlett Johansson che ha cantato con loro Just Like Honey (inserita nella colonna sonora di Lost In Translation), i Jesus and Mary Chain sono tornati (l’ultimo album è Damage and Joy del 2017) e hanno chiuso in Italia il tour europeo in cui hanno suonato tutto Darklands: dieci brani e 35 minuti di musica immersa in una oscura bellezza, un gioiello decadente carico di riverberi e inquietudine che in un’epoca in cui la musica alternativa conquistava ancora le classifiche li ha portati nella Top 5 in Inghilterra nel 1987.
L’esordio dei Jesus and Mary Chain Psychocandy è diventato subito un album di culto del post punk inglese («Non c’erano più chitarre al tempo», ha ricordato William Reid, «tutti facevano pop elettronico»), alla batteria c’era Bobby Gillespie dei Primal Scream, intorno al loro suono e al loro atteggiamento si è creata un’estetica e un intero genere musicale che ha preso il nome di shoegaze. Due anni dopo i fratelli Reid si producono da soli Darklands usando una drum machine al posto di Gillespie e arrivano al numero 5 in Inghilterra con un album che che è stato definito l’incontro perfetto di luce e ombra. Dal vivo lo eseguono in maniera impeccabile, con i volumi giusti e quella sensazione di suonare sempre in equilibrio, sospesi su un limite sonoro che afferra il pubblico e lo trascina quasi fisicamente dentro. Sbagliano anche l’attacco di un pezzo e lo riprendono, perché anche in un tour celebrativo come quello di Darklands la ricerca della perfezione non conta niente rispetto all’intenzione.
Poi arrivano i brani da Psychocandy come Taste of Cindy, God Help Me da Stoned and Dethroned e l’omaggio diretto agli ispiratori assoluti Velvet Underground con Moe Tucker (non hanno mai fatto mistero delle loro influenze: anche fatto un pezzo noise intitolato Bo Diddley Is Jesus), I Love Rock’n’Roll dal controverso album Munki del 1998, il finale sublime con Just Like Honey e tre minuti di furore finale con Never Understand.
Sogni elettrici ad occhi aperti e testa bassa: i Jesus and Mary Chain non hanno perso niente di quella formula rivoluzionaria del rock britannico che hanno trovato quasi per caso a East Kilbride, periferia di Glasgow e in cui a un certo punto si sono ritrovati dentro tutti, band e pubblico insieme: una fusione di rumore e melodia che serve a dare forma al caos, là fuori e dentro di noi.