Rolling Stone Italia

Rifare benissimo i Pink Floyd senza prendersi sul serio: il concerto di Nick Mason a Roma

Il batterista torna in Italia col repertorio pre ‘Dark Side’ e finge di ricevere una telefonata da Roger Waters, vecchio trombone che sbraita. Una lezione su come gestire l’eredità della band con talento e ironia

Foto: Giuseppe Craca

Dopo aver passato anni a dichiarare e probabilmente a sperare con tutto se stesso di poter essere l’unica persona al mondo in grado di riunire ancora una volta i membri superstiti dei Pink Floyd, Nick Mason deve aver gettato la spugna e cominciato a realizzare di poter portare avanti l’eredità della band a modo proprio. Se David Gilmour minaccia di non suonare i pezzi di Roger Waters, Waters cancella gli assoli di chitarra e suona solo brani compresi tra The Dark Side of the Moon e The Final Cut ed entrambi sembrano dimenticare spesso che c’è stata vita prima del 1973, Mason fa la cosa più ovvia e allo stesso tempo forse più pura: suonare solo pezzi incisi fino all’anno prima che i Pink Floyd si trasformassero in superstar, andando a colmare una voragine lasciata aperta dai vecchi compagni.

Che Mason rappresenti la coscienza storica del gruppo è noto ai più. Se Gilmour e Waters da sempre tentano di “cancellare” o riscrivere la storia della band a loro piacimento, Nick ha sempre cercato di dare ai fan il racconto più realistico possibile. Prima ha scritto l’unico libro ufficiale di un Pink Floyd e poi ha imbastito anni fa un progetto come quello dei Saucerful of Secrets, in cui ridare luce in primis all’importanza storica di Syd Barrett. Riprendendosi allo stesso tempo il ruolo che gli appartiene: quello di unico membro ad aver suonato in tutti gli album dei Pink Floyd. L’operazione porta con sé inevitabilmente una marcata vena nostalgica, ma di fatto conferma nuovamente il desiderio di Mason di dare un quadro completo della discografia del gruppo, senza limitarsi a una carrellata di hit, per la quale esistono altri tour.

L’entusiasmo con cui si è imbarcato in questa avventura dopo lunghissimi anni di inattività è decisamente ricambiato dal pubblico, forse stanco di sentire parlare da sempre solo di scontri e galvanizzato dal fatto di non doversi per forza schierarsi contro qualcuno. Anche all’Auditorium Parco della Musica di Roma, come nelle numerose date degli ultimi anni, nessuno si lamenta di non aver sentito un brano, nessuno contesta l’assenza di classici, nessuno si professa watersiano o pro Gilmour. Una cosa che può apparire scontata, ma che scontata non è, nonostante la precisa dichiarazione d’intenti del batterista.

Foto: Giuseppe Craca

Anni fa, Lou Reed annunciò un tour solo di brani non celebri o suonati pochissimo nel corso della carriera, precisando che chi voleva sentire le sue hit poteva stare a casa. Ricordo vividamente le contestazioni durante l’esecuzione di pezzi come My Red Joystick e le invocazioni continue a Sweet Jane. Ieri sera non è successo niente di tutto ciò, anche perché, va detto per onestà intellettuale, Astronomy Domine, Arnold Layne o Scarecrow non saranno suonate dal vivo da nessun altro membro dei Pink Floyd, ma non sono certo paragonabili a un pezzo sulla passione di Lou Reed per i videogiochi.

La serata parte comunque subito forte nel segno di Barrett. Dopo le citate Astronomy Domine e Arnold Layne, a chiudere un cerchio ideale giunge See Emily Play, seguita forse dalla vera perla della serata: la nuova esecuzione dal vivo (la prima esecuzione in assoluto è stata fatta dall’inizio di questo tour) di Remember Me, oscuro brano risalente al 1965 che Mason e compagni suonano accompagnati proprio dalla voce registrata di Syd, che per un attimo permea la cavea della folle visionarietà che solo lui era in grado di evocare.

Rispetto ai primi show, nati soprattutto come un divertissment che probabilmente nessuno immaginava di protrarre così a lungo, il gruppo appare rodato. Guy Pratt è uno dei volti più conosciuti dai fan, avendo vestito gli scomodissimi panni di Waters in tutti i tour post separazione: il suo basso è potente e preciso e la sua tecnica differente da quella di Roger. Lo stesso vale per l’ex Spandau Ballet Gary Kemp, che mai cerca di scimmiottare in nessun modo Gilmour. È un po’ questa la filosofia di fondo dello spettacolo: riprodurre un repertorio mastodontico e impervio con personalità e senza farsi schiacciare da pressione o aspettative.

Non c’è nemmeno paura di ledere maestà alcuna, tanto che spesso i brani sono intersecati uno con l’altro, con soluzioni inedite e sorprendenti. È il caso di If, splendido brano di Waters contenuto in Atom Heart Mother, che a metà viene interrotto proprio dalla suite che dà il titolo all’album, per poi ricomparire in coda. Tra i presenti, qualcuno con un po’ di malizia sostiene che la scelta di If è la conferma del maggior affetto per Waters di Nick, che dall’album con la mucca avrebbe potuto scegliere altro, ma sono cose che lasciano subito spazio alla meraviglia per due versioni da brividi di Set the Controls for the Heart of the Sun e Echoes.

Foto: Giuseppe Craca

Uno degli aspetti più significativi dello show è l’assoluta voglia di non prendersi troppo sul serio di Mason, cosa che lo distingue ulteriormente dai vecchi amici. Descritto da sempre come il più divertente dei Floyd, Mason cerca continuamente di smorzare l’effetto nostalgia e la solennità di alcuni brani con una buona dose di ironia. E spesso è proprio Waters l’oggetto delle sue gag; sia quando chiede di trattare bene Pratt, perché ha già avuto troppi problemi con i bassisti delle sue band, sia quando finge di ricevere una telefonata da Rog e la mette in vivavoce, facendoci sentire un vecchio trombone che sbraita. Divertente e decisamente molto inglese.

Insomma, se un po’ fa tristezza pensare che tre Floyd su quattro sono in discreta forma e in tour separatamente, dobbiamo prenderla come viene, come direbbe il drugo Lebowski.

Iscriviti