Chi l’avrebbe mai detto nel 2003 che quel progetto di Milano nato dalle ceneri delle Sacre Scuole sarebbe diventato, in vent’anni, il gruppo rap più importante della storia del genere in Italia. Certo, qualcuno potrà giustamente obiettare che nessuno sarà mai all’altezza di pionieri come i Sangue Misto, ma i Club Dogo sono stati – e sono ancora visto che si sono ufficialmente riformati quest’anno pubblicando un disco – qualcosa di più. Non si parla in questo caso di qualità in senso stretto, bensì di ampiezza orizzontale (il pubblico raggiunto) e verticale (la durata della carriera), due caratteristiche che nessun gruppo rap in Italia può condividere con i Dogo.
Dieci anni sono passati da quell’esordio chiamato Mi Fist capace di travolgere i lettori cd e le autoradio italiane (in particolare del nord-ovest) a quel Non siamo più quelli di Mi Fist, l’ironico congedo prima di dieci anni di silenzio. E poi un ritorno improvviso, qualche mese fa, giusto in tempo per riprendersi tutto quello che si era coltivato con quei sette dischi che hanno segnato un’epoca fondamentale del rap italiano, quella che dall’underground ha portato il genere nel mainstream in modo definitivo.
Non è un caso che tutti gli ospiti (Elodie, Marracash, Sfera Ebbasta, Lazza, Arisa, Giuliano Palma, Coez, J-ax. Alborosie, Vincenzo da Via Anfossi e Emi lo zio) presenti alla prima volta del trio a San Siro – un evento che si iscrive per direttissima nella storia del rap italiano – abbiano preso la parola anche solo di sfuggita per ringraziare quelli che Lazza e Sfera Ebbasta dal palco hanno definito padri («Siete il mio genitore 1, genitore 2 e genitore 3», scherza Lazza dopo essersi prestato al piano per Lisa). Quando avevano lasciato, nonostante un percorso ricco di successi anche commerciali, i Dogo mai si sarebbero potuti sognare di chiudere 10 date al Forum (qui se volete sapere come andò) e una a San Siro, ma il lavoro svolto dai loro “figli”, proprio quei Sfera e quei Lazza che qui sono venuti a portare i propri omaggi e che negli ultimi 10 anni hanno rivoluzionato la scena rendendo l’urban (vuoi che sia trap o rap) il genere più ascoltato in Italia, è servito per far sì che la storia dei Dogo si sedimentasse forse in modo più subdolo di quanto potessimo immaginare nel sostrato culturale del Paese.
Il luogo è quindi Milano, come sempre nella carriera del trio, qui festeggiata in ogni modo possibile, dal palco che mostra un angolo della città e la metro rossa ai video panoramici della metropoli, dai testi degli esordi come Vida loca alla più recente Soli a Milano con Elodie, contenuta nell’ultimo album, Dogo. Il posto, più precisamente, è San Siro, questa sera ben popolato da un pubblico transgenerazionale composto da chi ha scoperto i Dogo grazie alle collaborazioni con gli artisti trap più contemporanei a chi c’era dal giorno uno, dalle prime barre di Mi Fist (“Sa sa, provo il microfono, never give up / cervello acceso, tele spenta, esplodo sul boom bap”, per l’esattezza). I protagonisti loro – Guè, Jake la Furia, Don Joe -, i Club Dogo, la cultura italiana mainstream dai primi Duemila a oggi messa in rap.
Non è infatti un caso che sugli schermi, durante i vari interludi che dividono lo show in sei differenti sezioni, scorrano le immagini dei giganteschi cortocircuiti presenti nella cultura del Paese e nella carriera dei Dogo. Negli spezzoni video ci sono Mario Giordano, dritto da Fuori dal coro, che prima cita i vari padri putativi della storia del rap italiano (da Kaos ai Sangue Misto, dagli Articolo ai Sottotono) per poi rituffarsi nel ruolo del villain di Rete 4 che odia il rap per i suoi testi violenti e misogini (in un gioco al massacro che richiama i CCCP con Andrea Scanzi a Berlino), ma anche Briatore che cita il testo di Briatori, e foto e filmati in cui appaiono in ordine sparso Silvio Berlusconi, Lapo Elkann, la pornostar Elena Grimaldi, i servizi fotografici dei calendari di Max, ovvero tutta quella cultura italiana figlia per l’appunto del berlusconismo e dei servizi di Lucignolo su Mediaset. E se nella prima parte di carriera questo presepe di figure ultra-capitaliste era il nemico numero uno del gruppo – che al Vile denaro ci aveva dedicato un disco – ora è a suo modo parte integrante non solo dell’estetica, ma anche del vissuto stesso dei Dogo come gruppo e come singoli. Da bandiera della controcultura, i Club Dogo sono infatti diventati la cultura stessa, con tutte le complicazioni del caso che a San Siro sono state festeggiate da un pubblico dogofiero più che mai fedele alle figure di Guè, Jake e Don Joe.
In fondo i Dogo sono sempre stati così smaccatamente autocelebrativi da considerarsi da sempre parte della storia, come esplicitavano già da un titolo come sguaiatamente autoironico quanto egoriferito come Non siamo più quelli di Mi Fist. Lo show è così giustamente una grande (auto)celebrazione di una carriera lunga due decenni, in cui i Dogo colgono tutte le occasioni possibili per ricordarcelo e ricordarselo (i sorrisi continui di Guè svelano una certa emotività che ritornerà per tutto il live). Nel live c’è una sezione dedicata alla nostalgia delle rime d’acciaio di Mi Fist con Vida loca, Cronache di resistenza, La stanza dei fantasmi, Hardboiled, Rap soprano, una al lato più leggero e reggae del trio (con video introduttivo con intervista a Bob Marley, unico momento davvero serio dello show, giustamente in contrasto con i filmati di Briatore e Giordano) in cui Alborosie e Giuliano Palma vengono in aiuto per brani come King of the Jungle e P.E.S. – oltre all’amatissima Note Killer -, e una sezione pensata esclusivamente per uno dei fratelli più cari del Club, Marracash, che rimane sul palco per quattro brani – Briatori, Ciao proprio, Nato per questo, Puro Bogotà – stupendosi a ogni canzone di quanto quella successiva sia «ancora più una mina». “È la mia storia, la tua storia” dichiara Jake all’inizio di Una sola volta, e mai come in questa notte tutti i pianeti dei dogofieri sembrano allineati.
In un mix di nostalgia, militanza hip hop e sboronaggine cafona, i tre fanno il loro dovere, rappando i pezzi senza seguire la stupida moda di tagliare le strofe per evidenziare, visto che ce ne è bisogno, quanto le parole siano importanti in questo genere. Che siano politicizzate come quelle degli esordi, o ultra-capitaliste come quelle della seconda parte della loro carriera, i Dogo restano fieramente convinti prima di tutto di loro stessi, anche nella scelta di brani che non hanno proprio superato la prova del tempo. «Questa ora non la si potrebbe più scrivere» scherza Guè poco dopo Briatori, e ha ragione lui: i tempi sono cambiati, e così a suo modo anche i Dogo. Che sia in meglio o in peggio poco importa, è già storia.
Milano finest è il claim che i Club Dogo si sono incollati al petto dagli esordi. E nella splendida cornice di San Siro hanno tutte le ragioni per tale (auto)proclamazione. Nel bene e nel male i Dogo ci hanno ricordato di essere parte degli ultimi vent’anni della cultura nazionalpopolare italiana, sia come narratori che come protagonisti. Vent’anni dopo, vederli su quel palco, ha un significato enorme. Per il pubblico presente, per loro, per il rap. Milano è ancora una volta dogofiera.