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Sì, per delle idee fresche sulla musica devi andare in Polonia

Siamo stati all'Unsound di Cracovia, uno dei festival più stimolanti in Europa, dove avanguardia e sperimentazione passano anche attraverso lo scambio, il dialogo, la conversazione. Arrivi per ballare, torni a casa pieno di nuovi stimoli

Foto: Helena Majewska

L’aereo parte dall’aeroporto Silvio Berlusconi di Milano per arrivare al Giovanni Paolo II di Cracovia. Un tuffo nella cultura italiana anni ’90. Dalla seconda città più popolata d’Italia alla seconda città più popolata della Polonia. Da una parte è da un pezzo che non ci sono più gli Jannacci, dall’altra è da tempo che non si vede uno Chopin. Eppure dal 2003, a Cracovia, nel sud della Polonia, si tiene quello che da parte di una certa scena viene considerato come il festival di riferimento della musica contemporanea, qui intesa come sotterranea, sperimentale, alternativa: l’Unsound Festival. In questi primi vent’anni, giusto per spiegarne la portata, l’Unsound ha tenuto edizioni satelliti a Londra, Toronto, Adelaide e a New York, dove tornerà questo novembre. Noi, come è giusto che sia, siamo partiti dall’originale.

A Cracovia è già autunno inoltrato, da giacca e ombrello, si mangiano pierogi caldi e quando arriviamo è giovedì sera, ovvero a metà della settimana di festival, inziato ufficialmente la domenica precedente. Le location sono parecchie e sparse principalmente dentro la città e in particolare nel quartiere hip del momento (Kazimier), ma – sia lodata la Polonia! – i taxi per raggiungere le location notturne costano davvero una cifra irrisoria. Con 20 zloty, poco meno di 5€, si va dal nord al sud della città in una quindicina di minuti. Parliamo di teatri, cinema, hotel e, naturalmente, warehouse, magazzini in periferia che richiamano la cultura rave dei ’90. «Niente più chiese sconsacrate però», racconta sconsolata Małgorzata Płysa, una delle menti del festival durante una delle club night, «dicevano che eravamo satinisti e ce l’hanno proibito». Visto il contesto cattolico del Paese e della città (vi dobbiamo ricordare il nome dell’aeroporto?) non è difficile credere che certa musica presentata e certi outfit indossati del pubblico abbiano destato terrore in una parte della popolazione più ottusamente conservatrice.

Bill Callahan all’Unsound Festival. Foto: Helena Majewska

Dj E aka Chuquimamani-Condori. Foto: Zuza Sosnowska

Rick Farin & Actual Object all’Unsound Festival. Foto: Zuza Sosnowska

E partiamo da qui, il pubblico, che all’Unsound è parecchio cool. Al suo interno emergono estetiche di nuove futuristiche sottoculture dell’internet, ma resistono anche vecchie generazioni di amanti dell’universo più noise (che per di più è il tema di quest’edizione) oltre a tanti, tantissimi addetti ai lavori, ovvero artisti, dj, promoter che vengono qui per il magnifico clima culturale che il festival costruisce senza l’affanno dei grandi altri festival europei. L’effetto è un pubblico a suo modo eterogeneo ma funzionale: la mentalità è sempre aperta, che ci si trovi all’ascolto dei lunghissimi bordoni di organo di Kali Malone o immersi nel noise esasperato degli Yellow Swans o che si segua dei panel sul folklore digitale o una sessione d’ascolto intima con la compositrice Lyra Pramuk. Così nei concerti, come le quasi due bellissime ore di concerto solo chitarra e voce di Bill Callahan in un cinema o l’assurda performance per keytar e cd player di Dj E aka Chuquimamani-Condori, così nei dj set notturni nei due warehouse del Kamienna 12 conditi dai suoni del Sud America di Lechuga Zafiro e Dj Anderson Do Paraiso o dalla bass music del back2back in consolle di Skee Mask e Actress, queste ultime due performance co-curate con Times (The Indipendent Movement for Electronic Scenes) insieme a quelle di Crystalmess + Oxhy, Lord Spikehear, Laurel Halo, Rafael Toral e a Crossing di Rebecca Salvadori, Saint Abdullah, Eomac. Il risultato totale porta con sé un reminder piuttosto importante: sperimentare non significa per forza sintetizzatori, iper-digitalizzazione, IA, ma l’avanguardia si può (ancora) fare anche con una chitarra, un organo, una fisarmonica. O un coro. Il pensiero non ha e non deve aver limiti.

La performance prodotta da TIMES di Rebecca Salvadori, Saint Abdullah, Eomac a Unsound. Foto: Michal Murawski

In tre giornate intese – si parte infatti la mattina con i panel per finire con i set fino a notte fonda (sì, le lancette toccheranno le 6 de la mañana) – quello che maggiormente colpisce l’attenzione è quella potremmo definire, per essere un po’ dei cool kid, la vibe. Non ci sono mai problemi, tensioni, code. Né agli eventi né sul dancefloor. Tutto scorre liscio, qualsiasi sia la location, dai workshop coi posti limiti agli eventi con migliaia di persone. C’è voglia di scoprire, ascoltare, condividere. Anche i temi dei panel sono estremamente interessanti. Citiamo alcuni titoli: Volume, Power & Protest, una discussione sulla relazione tra il suono e i metodi di controllo delle folle, The End of Listening, una presentazione del ricercatore americano Mack Hagood sull’evoluzione delle nuove tecnologie d’ascolto, e Goverment, Disinformation, Psyops and Aliens, una conversazione sul folklore della rete. Avete presente quando durante i talk dal palco chiedono se qualcuno ha delle domande e tutti tacciono? Ecco, all’Unsound è l’opposto. Il tempo per le domande si conclude con ancora molte mani alzate e il dialogo che viene trascinato fuori dalla sala, nei corridoi, dove continua imperterrito.

Un workshop. Foto: Helena Majewska

Una performance mattutina di FUJI|||||||||||TA. Foto: Jasinyy

La listening session di Lyra Pramuk. Foto: Michal Murawski

L’Unsound Festival non si limita a nutrire dei fruitori passivi, ma stimola l’intervento del suo pubblico tra discussioni, workshop, listening session. Negli anni si è tanto abusato del termine community/comunità, un concetto oramai rigurgitato anche dai peggiori brand in riferimento ai propri consumatori, ma parlare di Unsound senza parlare di comunità sarebbe mancare il punto del festival. Nella ricerca, nella sperimentazione, nella formazione culturale proposta da Unsound, la costruzione e formazione di una community che possa condividere pensieri, idee e ascolti è alla base, anzi, ne è la base. In questo modo il festival può espandersi al di là dei propri spazi e creare un riverbero all’interno di chi è presente in questa folle settimana culturale. Vedere così tante performance sonoricamente e esteticamente stimolanti, partecipare (anche attivamente) a così tante conversazioni sul contemporaneo non solo infatuano, ma arricchiscono, plasmano, aprono spiragli per possibili evoluzioni personali.

In molti nell’aereo di ritorno (vista la diversità geografica del pubblico saranno fortunatamente pochi quelli a doversi riconfrontare con il Berlusca), e nei giorni a seguire, scoveranno dentro sé tanti piccoli semi di pensiero fioriti all’Unsound. Anche chi si è solo presentato la notte per ballare e lasciarsi andare, senza grandi aspettative e proiezioni intellettuali, ha trovato in quel momento un ambiente sonoro e umano non-comune che, attivamente o passivamente, ha mostrato qualcosa di differente. Le idee nascono così, in luoghi così. Se dovessimo consigliarvi un festival a occhi chiusi per il 2025, il primo nome sarebbe quello dell’Unsound.

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