In mezzo alla folla vedo Mimmo. Svetta, dal lato opposto del cerchio. Mi vede anche lui, alza in alto il braccio e mi fa tre con le dita. Annuisco. Musica indiavolata sotto il tendone, note di una terra che non conosco, parole che non so decifrare. Scarpe che infangano, strumenti a me ignoti costringono al ballo. Il pubblico è in visibilio, si è creato un grande abbraccio circolare. Mimmo è esattamente di fronte a me, un vettore che mi guarda e dice tre. È un vero cowboy, Mimmo. Vende vino in grotta e cavalca Appaloosa. Chiunque vorrebbe fare un giro a cavallo con lui domattina. Io so che quando Mimmo arriverà all’uno, tutti si lanceranno in mezzo a quello spazio vuoto – vuoto apparente, condensatore di energia collettiva, tensione pronta a diventare azione – e la quadriglia esploderà in un turbinio di corpi, sciame di intrecci e grida felici. Mimmo dice due. Mi preparo allo scatto e all’impatto. Sul palco ci sono due anziani seduti che fanno acrobazie con le fisarmoniche. Sto per partire, ma il mio vicino mi afferra per il braccio e mi sussurra qualcosa.
«È meglio di Goran Bregović».
Mi giro. Il mio compagno di quadriglia lo riconosco. È il direttore artistico di questa festa, Vinicio Capossela, colui che – letteralmente – ha messo in piedi tutto ‘sto circo. Lancio lo sguardo al di là del cerchio, Mimmo dice uno. Tutti sanno cosa devono fare, parte l’assalto al tendone.
Se parti dal Nord e scrivi Calitri sul navigatore, Google Maps inizia immediatamente a buggare. Controlli con una settimana anticipo, e ti dice di andare verso Pesaro, e prendere l’Adriatica. Qualche giorno prima riverifichi – perché non ricordi esattamente – e scopri che in realtà, per qualche motivo, ora è meglio arrivarci passando per Napoli. Alla vigilia della partenza, verso ora di cena, quando vuoi decidere a che ora puntare la sveglia, rilanci, e ti manda di nuovo sull’A14. Non sapendo che fare, scarichi Waze, ripeti tutta l’operazione, e anche lì ti ritrovi in un’alternanza di risultati. Rimani in questo limbo decisionale fino all’ultimo. Cambi telefono, chiedi al tuo vecchio compagno di liceo di Avellino, ricorri alle mappe cartacee, ma in assoluto nessuno sembra sapere come arrivarci. O meglio: ognuno ha una sua teoria per arrivare in Alta Irpinia, e non sai di chi fidarti. È terra di mezzo, e alla fine – preso dalla disperazione – non puoi fare altro che abbandonarti all’umore del navigatore nei 10 minuti precedenti all’effettiva partenza. Nel mio caso, mi spedisce verso l’Adriatica, in una ripida discesa verso il foggiano, e poi un’ora di abbarbicamento nell’entroterra prima pugliese, poi lucano, e poi – dopo aver guadato l’Ofanto – campano, tra distese di pale eoliche e sparute stazioni dei treni, che ammiccano come saloon. Ti fermi a mangiare un boccone in quella che sembra essere una vecchia sala d’aspetto. Mentre attendi le cannazze al ragù c’è un Babbo Natale con occhiali da sole e cappellino da controllore di Trenitalia.
«Siete qui per lo Sponz?».
«Sì».
Lo Sponz Fest è la festa che Vinicio Capossela organizza da 12 anni (con una pausa proprio la scorsa estate per mancanza di fondi) a Calitri. Figliol prodigo di queste terre, Vinicio, da Hannover, poi Scandiano, si riconcilia con le sue origini portando il suo strampalato seguito nel paese scenografia della sua mitologia famigliare, una volta all’anno, allestendo un evento unico in Italia. E forse non solo. Lo Sponz Fest – dal dialetto locale sponzare – ovvero imbevere, inzuppare, ammollare, quindi lasciarsi andare, sciogliersi, “rendersi fradici come una spugna”. L’espressione del “ricreo massimo”, tipica degli “accampanti”, ovvero coloro che si intrufolavano nei grandi matrimoni paesani senza essere stati invitati, per unirsi a festeggiamenti e balli, e ritrovarsi a fine giornata tutti sponzati, come baccalà.
Quest’anno lo spirito dello Sponz, sino al 2023 sempre esploso nelle serate di tarda estate, si intreccia con un altro marchio del funambolico cantautore irpino-emiliano: il “periodo di euforia sentimentale” delle feste. Capossela è un cultore dal Natale, e non è una novità. Da più di 20 anni lo celebra tutti i 25 e 26 dicembre al Fuori Orario di Reggio Emilia, con uno scatenato concerto-cabaret burlesque, una sorta di uscita d’emergenza dai post-cenoni, una safe zone da indigestioni alimentari e famigliari. Ha scritto una favola di Natale sui Cerini di Santo Nicola, ha letto e musicato il Canto di Natale di Charles Dickens, ha fatto un podcast sulle feste, un film sul Natale, ha organizzato concerti natalizi per i senzatetto di Piazza Duca D’Aosta, di fronte alla stazione centrale di Milano. Ad ottobre ha fatto uscire un disco per le feste, Sciusten feste n.1965, che è un po’ la sintesi massima del suo intenso rapporto con le festività.
Fatta la playlist, serviva l’occasione per farla suonare, ed ecco allestita in un baleno la prima edizione dello Sponz Viern, versione invernale delle sponzate estive. Dal sole cocente del far west irpino, ai falò per tenersi caldo. Da Per un pugno di dollari a The Hateful Eight. Dai matrimoni bagordi sul Danubio di Gatto nero gatto bianco di Kusturica, alle scorribande notturne sotto la neve nel Capodanno del ’47 di Dean Moriarty, Sal Paradise e gli altri pseudonimi da Beat Generation nelle cantine di New York, sudando e strabuzzando gli occhi di fronte a George Shearing alla ricerca di “quella cosa”.
Il tendone aspetta il pubblico. Foto: Luigi Zannato
Corso di orientamento a Calitri. Foto: Barbara Pasquariello
Foto: Mono Foundation
Per l’occasione, il direttore artistico Capossela ha radunato la sua personalissima famiglia, per tre giorni di celebrazioni in attesa della dodicesima notte – quella dell’Epifania, che chiude i 12 giorni di feste comandate. Lo Sponz Fest è la più bizzarra tavolata della vigilia di Natale che si possa immaginare. Ci sono tutti. C’è il mago Christopher Wonder, lo zio acquisito d’America che viene ogni anno con un animale domestico diverso e a notte inoltrata sai già che canterà – stonato – Fairytale of New York. C’è Peppe Leone (Magic Tambourine), che è lo zio di tua madre che passa giusto per una grappa a fine pasto, perché ci teneva a fare una cena della vigilia intima da solo, con il suo tamburello – gliel’aveva promesso. C’è Nadia Addis (circense), la cugina di qualche anno più grande di te che ti è sempre piaciuta e la osservi arrossendo mentre fa le marionette per i nipoti più piccoli. C’è Andrea Tartaglia (cantante), il ragazzo bono di tua cugina che tra i secondi e il dessert prende la chitarra e inizia a suonare Happy Xmas, a tuo discapito, divinamente. Poi ci sono i Patagarri (band), i cugini piccoli, quelli che ti stanno simpaticissimi fintanto che non ti battono al torneo di biliardino di Natale, e qualche mese dopo il nonno decide di regalare a loro la macchina, e non a te. Ci sono le Sorelle Marinetti (trio a cappella) – o meglio, ci dovrebbero essere –, le zie zitelle che puntualmente danno buca all’ultimo perché non se la sentono di dover ulteriormente giustificare il loro nubilato. C’è Vincenzo Costantino Cinaski (pusher di poesie), lo zio di tuo padre che al terzo bicchiere di vino, o inizia a declamare versi, o ad asserire con vemenza che Giacomo Leopardi è come Gigi d’Alessio. E, tendenzialmente, prima degli auguri di mezzanotte ti ha convinto.
Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è, la tavola è apparecchiata, inizia l’abbuffata. Si entra nel centro storico di Calitri.
C’è un clown nel vicolo. Ride a fatica. Deve fare uno spettacolo, vuole farlo: è la sua grande occasione. Ma lui è timido, e tu lo incoraggi. Si presenta: si chiama Boris, viene dalla Bulgaria, e ti racconta una storia sugli specchi, o forse sulle bugie degli specchi, sicuramente su una donna che si credeva brutta. La ascolti, e poi ci ripenserai. Giri l’angolo, e c’è una grotta. Nella grotta un mago. Un mago con cappello e un cane piccolissimo. Lo chiama Little Prince. Giordano Bruno per gli amici. Sulla guancia, una goccia. Sulla gota, una lancia. A terra il cappello, straccio sporco senza mancia. Sogghigna con accento straniero, estrae sigarette dalle orecchie e petardi dal mantello. Ogni tanto spara in aria e lancia coriandoli. Alle sue spalle, due ombre scure. Indossano un lungo tabarro e parlano piemontese. Intonano cori di chiesa e di casa, mentre affettano salami e bevono Nebbiolo. Esci stordito, cambi spazio e ti dirigi verso la grotta più a Sud. C’è silenzio, un poeta seduto al tavolo. Non ride. Scrive poesie per chi si vuole confidare. Enuncia versi per chi vuole essergli complice.
Foto: Luigi Zannato
Foto: Barbara Pasquariello
Foto: Mono Foundation
Può capitare, a volte, mentre il poeta canta, il mago ammalia, il clown stupisce, il cane piccolissimo abbaia, che un figuro entri in scena, con fare disinvolto. Battuta pronta e postura d’ombra. Si siede al piano, batte mani su spalle e rincarando la dose rincuora la voce. Vinicio, il quarto Re Magio, appare a piacimento tra le statuine del suo paese presepe, e ci ricorda che non siamo ne La strada di Fellini o nel circo di Big Fish di Tim Burton, ma semplicemente allo Sponz Viern, in cui si «sospende il tempo dell’utile, e si celebra la cuccagna senza opulenza». Il direttore artistico si è sognato un treno – espressione calitrana per indicare il mettersi in testa qualcosa di irrealizzabile – e ha sponzato anche l’inverno, per un ammutinamento collettivo delle feste comandate. Brutalizzando il dialetto, tanto per capirci: si è sognato il Polar Express.
Al disperato erotico Sponz non sai se stupirti maggiormente dell’incredibile eterogeneità degli artisti sui palchi e degli eventi in programma, o di quella del pubblico. Vinicio riesce ad alternare sul palco Tonino Carotone, Vincenzo Vasi, mostro sacro del theremin, che ha collaborato – tra gli altri – con John Zorn e Chris Cutler, le star localissime de A Cunv’rsazion, che in scaletta hanno solo canti popolari calitrani, la Rekkiabilly Swing Punk Orchestra, le tarantelle di Tonuccio Corona & Pink Folk, le commistioni folk dei Makardìa, l’apparizione del «miglior tenore del mondo» Ciccillo di Benedetto, che per nove anni ha fatto il manovale a New York, e nelle pause pranzo i colleghi gli chiedevano di cantare, mentre si lavorava alle fondamenta delle Torri Gemelle. E prima dei concerti, incastonati nel centro storico di Calitri, dispute filosofiche, proiezioni di film di Charlie Chaplin e Stanlio e Ollio, spettacoli teatrali, laboratori di giocoleria, presepi parlanti e presentazioni di libri.
Tre notti di musica memorabili, per un pubblico altrettanto non catalogabile: i fedelissimi arrivati con i bus, quelli scesi in macchina dalla Lombardia, una comitiva belga, i bambini che tra una canzone e l’altra escono nel gelido piazzale a giocare a calcio, i locali che vengono a ballare la quadriglia, i fan di X Factor per una foto con i Patagarri, le nonne che vengono a sentire il nipote che suona (o il marito), i paesani che vengono a vedere che sta succedendo in quel tendone che è sbucato dal nulla con l’anno nuovo, i ragazzi dei paesi limitrofi, che magari non sapevano che fare ed entrano in pista, dove proprio in quel momento c’è silenzio assoluto con Vinicio che legge un brano di Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, per il cinquantesimo anniversario della morte dell’autore.
Una carovana – o meglio, una slitta – strampalata, che anche senza coordinate sta in piedi, e tutti vi sono parte e contribuiscono a farla filare dritta (vino permettendo). Dritta fino a Piazzale Giolitti, sotto le stelle e la luna crescente, per il rogo della befana. Dal tendone al falò, per un nuovo ritrovo. Le zampogne, i cacicavalli che escono da garage bui, il Mago Wonder che spara fuochi d’artificio come bengala e ride, le tammorre e i tamburelli che scandiscono il rito, e le voci che cantando scaldano. La Befana brucia altissima nella dodicesima notte.
Immerso in un folto gruppo di musicanti Vinicio mi vede e si avvicina. Fissa stralunato il falò, non ci può credere che sia venuto così bene, guarda le scintille che salgono e volano via, mentre le fondamenta sono marmo rovente. Impacciato, mi complimento per il concerto e per l’impeccabile esito di tutto il programma del festival. Lui ha sguardo sognante, di chi sta vedendo qualcosa che si immaginava da tanto, ed è finalmente lì, davanti a lui. Ed è anche meglio. Sembra guardare – dietro a quelle faville – il suo tendone che ha spiccato il volo.
«Guarda il fuoco, è altissimo. Guarda quanto è bello. Qui non c’è nulla da programma, qui c’è solo un miracolo».
Foto: Luigi Zannato
Foto: Mono Foundation
Foto: Barbara Pasquariello
P.S. (Post Sbornia)
In preparazione a questo reportage avevo letto una vecchia intervista natalizia a Vinicio, del 2001. Gli venivano chiesti i progetti per il futuro, una sorta di lista di propositi per il nuovo anno. O, se vogliamo, una lettera per Babbo Natale. Diceva di voler imparare a suonare il ballo costaricano tico tico, di voler registrare un disco di canzoni per le feste, di voler tenere qualche concerto sotto Natale, e poi – fatte queste cose – di voler sparire. Nel pieno della notte, quando improvvisamente nessuno riusciva a dirmi dov’era finito, questa nefasta intervista è riapparsa nella mia memoria. Qualcuno sosteneva di averlo visto salire su un’automobile, altri l’avevano visto sparire con un amico, un tale giurava di averlo visto addentrarsi nel bosco, da solo.
Preso dal panico, ho iniziato a domandare a chiunque mi si parasse davanti se il Maestro avesse, in questo quarto di secolo, effettivamente imparato a suonare il tico tico, e fossi sciagurato e impotente testimone di un’uscita di scena alla Bilbo Baggins. Nessuno sapeva dirmi nulla a riguardo, e ignari della fatale profezia di Lombardia Oggi di inizio millennio ridevano di me, che indagavo le passioni musicali centro-americane del maestro alle 4 di notte. Ma non potevo farne a meno, non avrei chiuso occhio. Le parole di Santo Nicola, declamate dallo stesso Vinicio qualche ora prima dal palco, non facevano altro che alimentare inesorabilmente questa funesta sensazione.
Fare attenzione a quel che si desidera
che poi magari è capace che si avvera.
La mattina seguente Vinicio era alla Chiesa dell’Immacolata, alle 10 in punto, presente e di ottimo umore, per la Pastorale dell’Epifania. Non era fuggito, né tanto meno svanito. Non era caduto nel bosco. Probabilmente, era semplicemente andato a dormire.
Sicuramente, non è ancora diventato un virtuoso del tico tico.
Sarà per il prossimo Natale.