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Sponzati e felici al festival di Capossela

Per una settimana in Alta Irpinia lo Sponz Fest permette di sospendere la ragione e viver come folli in un mondo che va in folle. Il racconto di una grande festa collettiva e senza freni

Foto: Simone Cecchetti

Chiudete gli occhi. Immaginate un grande parco giochi al calar del sole. Pensate di sospendere la ragione per un tempo non definito e di lasciarvi travolgere dagli accadimenti semplicemente così, per come arrivano. Come in una grande, immaginifica collaborazione tra Fellini e Gondry, provate a pensare che cosa succederebbe se per qualche ora, giorno, (anno?) faceste un viaggio dentro a e L’arte del sogno, dove il tempo è scandito dalla rotazione perpetua di musica, con i suoi musicisti, che in circolo dal tramonto alle prime luci dell’alba si avvicendano su tre palchi dislocati in cerchio – un grande palco principale e due palchi “giostrine” – illuminati da luminarie colorate, il tutto all’urlo di «faciti rota!».

Girate in tondo, turnate, voltatevi in senso orario, come da tradizione della taranta. E come nell’Orlando Furioso, ogni notte era un concerto fatto di tanti concerti, un viaggio tra diverse follie dove, «di su, di giù, di sopra, di sotto», in folle, come si dice anche per la macchina che, fateci caso, vuol dire “senza governo”. Un moto perpetuo e ipnotico a cui bisogna solo abituarsi, come gli occhi si abituano al buio, dove il tempo si dilata e lo spazio diventa familiare, tanto da chiederci troppo presto che ne sarà di noi quando tutto sarà finito. Esercizio di pensiero inutile, sciocchi, ansiosi esseri mortali che siamo, che quando stiamo troppo bene vediamo prima la fine invece di goderci l’inizio. Ma come insegnava Heidegger, e anche tutte le filosofie esistenzialiste più o meno contemporanee, il segreto sta sempre nel godersi il presente, l’horita, il momento. E il momento è così denso e intenso che si fa fatica a raccontarlo.

“Come li pacci” è il titolo dell’edizione appena trascorsa dello Sponz Fest, il primo Festival della musica da sposalizio. Come il matrimonio è rito fondante della comunità, l’obiettivo originario del fest è stato dalla prima edizione quello di essere un’originale occasione di comunità per rinnovare e recuperare le tradizioni legate al rito più ancestrale, in una terra che tanti giovani li vede solo in questa occasione, una terra totalizzante e piena di artisti bravissimi che vengono fuori così prorompenti solo in occasione dello Sponz. E nella celebrazione dei suoi primi dieci anni ne ha confermato l’unicità: un festival unico, ambizioso, riconciliante bene rifugio. Come infatti ha ricordato il suo fondatore Vinicio Capossela, «visto che il mondo va in folle, e mai termine fu più appropriato, eleggiamo alcune cose che per noi sono beni rifugio, termine che si applica anche in economia. Nella vita di ogni giorno, il bene rifugio può essere una persona, un sentimento, qualcosa che designiamo a rifugio per contrastare il deperimento del mondo intorno: attribuire un valore alle cose, questa è l’unica forma di contrasto al mondo in folle», discorso che ha aperto la sua ultima anteprima estiva di quello che sarà il tour di ottobre di Tredici canzoni urgenti, il suo ultimo album, oltre ad essersi esibito, a grande richiesta, in alcune delle Canzoni della Cupa e cavalli di battaglia come Che coss’è l’amor, L’uomo vivo e Il ballo di San Vito.

Foto: Barbara Pasquariello

Il punto di partenza di questa speciale edizione è stato un progetto pensato insieme alla sorella Mariangela, artista che da anni vive in Francia e che, dopo aver visitato l’ex manicomio di Volterra – in parte recuperato in museo, in parte andato in malora – ed essere entrata in contatto con il volume Corrispondenza negata, epistolario dalla nave dei folli (1889-1974), lo stesso su cui hanno lavorato Marina Abramovich e Simone Cristicchi con Ti regalerò una rosa, ha pensato a “Ci. Corrispondenze Immaginarie”. Si tratta di un percorso che si è sviluppato durante tutto il 2022 e che ha previsto che 365 lettere, idealmente una al giorno trascritte a mano da lei stessa, fossero spedite in tutta Italia al fine di ottenere una risposta “immaginaria” che la censura dettata dalla legge dell’epoca aveva impedito. Alcune case di Calitri, paese d’origine dei Capossela, da dieci anni a fine agosto invaso da Birkenstock e cappelli di paglia (accessori molto gettonati tra gli avventori del festival), hanno accolto volontarie alcune lettere vere e le loro risposte immaginarie.

«Caro babbo, so già che ti arrabbierai a vedere questa calligrafia da prima elementare, ma capirai bene che quando una persona ha sofferto tanto quanto me, non possono che tremargli le mani, giacché il cuore non scoppi mai»: una giovane dei primi del Novecento scrive al papà chiedendogli di andare a prenderla presto perché non resisterà a lungo in quel luogo e non capisce fino in fondo il motivo del suo internamento.

«Gentilissimo, mi duole enormemente che io non abbia potuto rispondervi prima. Un ritardo di 120 anni è oltre l’imperdonabile. Fra una decina d’anni per voi avrà inizio un conflitto disumano che porterà i vostri conoscenti a morire di sfinimento. Che ne è stato di voi? Siete stato libero nella vostra prigione o prigioniero nella libertà degli altri?»: un ragazzo di oggi risponde a un vicino di casa di più di un secolo fa, provando a chiedergli se sia sopravvissuto alla Prima guerra mondiale. Seduta nel soggiorno di un piccolo appartamento nel centro di Calitri ho provato a nascondere le lacrime. Insopportabile pensare che centinaia di persone, rinchiuse “come li pacci” per chissà quale motivo, potessero restare in attesa credendo che genitori, amici, parenti, non risposero alle loro richieste di attenzioni per assenza di affetto o amore, quando invece nessuno recapitò mai quella corrispondenza. E siamo stati tutti, in qualche modo, come li pacci nell’attesa di una risposta a cui anelavamo.

Al cospetto di quel dolore di ragazze come me, di padri come mio padre, di mogli come le mie amiche, mi sono sentita piccola, sciocca, ma in totale empatia nel comprendere la sospensione dell’attesa. Il “ci” infatti, iniziali di Corrispondenze Immaginarie, è anche la particella pronominale che concorre alla declinazione del pronome personale noi. Ciascuna lettera si può considerare allo stesso modo come “una particella che prende senso solo attivando un noi”, trovando in chi riceve una risposta, destinata a comporre una nuova unità, una “comunità immaginaria”, generata da una condizione di reciprocità capace di riannodare pensieri, paure, desideri e ossessioni di voci che si muovono tra passato e presente.

«È stato bello, tra le altre cose, rendermi conto nell’inaugurare il progetto in piazza della Repubblica qui a Calitri, che siamo in uno stato di diritto, in democrazia, dov’è importante parlare di cose che riguardano l’individualità e allo stesso tempo la collettività come la salute, come ci curiamo e ci prendiamo cura degli altri, attraverso la socialità, la politica e la sanità pubblica», racconta Mariangela Capossela, legata, tra le tante lettere che ha trascritto di suo pugno, ad una in particolare, quella di una sorella che scrive al fratello per chiedergli di mandargli dei soldi per risarcire la sua amante, un’altra donna, negli anni ’70, anni difficili per l’omosessualità. In una delle risposte immaginarie arrivate alla donna, ci racconta Mariangela, nella busta c’erano 10 mila delle vecchie lire.

Corrispondenze Immaginarie. Foto: Gianmaria Cenciarelli

Una nave dei folli, il grande Sponz Fest, dove folli poi lo siamo tutti (“pacci si ma cionna no”, era il motto), salpata domenica 20 e approdata chissà dove all’alba di domenica 27 agosto, e sulla quale si sono avvicendati, tra gli altri, la giovane e talentuosa Daniela Pes, con quella sua lingua semisconosciuta che tocca corde che non sai di avere, Bobo Rondelli, instancabile menestrello dell’anima apparso su tutti i palchi dello Sponz, «pirata che irrompe travestito da Keith Richards, Fabrice Martinez e Rolling Sponz Review che» come ha scritto Capossela nel suo ultimo post di bilanci «fanno alzare la polvere della Cùpa vent’anni dopo la prima registrazione»; la Fanfara Fan Fath Al implacabile, partita nei primi giorni di fest alla volta dei vicoli più nascosti di Calitri centro e ritornata per la serata di chiusura tanto intensamente da ributtare l’altrettanto instancabile Capossela a cantare insieme le attese Zampanò e Solo mia; una Banda della Posta che non ha smesso di farci dimenare mai e di cui non credo di poter fare più a meno; l’Orchestrina di Molto Agevole che, insieme agli Ooopopoiooo Valeria Sturba e Vincenzo Vasi, ha reso pezzi della tradizione come Rosamunda o Romagna mia balli notturni matti e disperati. E poi Nino Frassica e i suoi Los Plaggers, una band di soli uomini che ha aperto con Siamo donne di Sabrina Salerno e Joe Squillo, i più pacci di tutti.

E poi una folgorazione: so che i lettori meno ignoranti di me in ambito musicale trasaliranno, ma nella mia vita avevo ascoltato troppo poco Micah P. Hinson, e avevo fatto male. Una bellezza che sembra non poter esistere senza tormento, che poi – ho studiato – è stata la sua vita sdrucita, ma anche la sua musica. Un cantante che sembra sceso da una Delorean dopo un viaggio nel tempo, si è esibito sul palco principale del ballodromo (così veniva chiamato lo spazio delle danze), in apertura dell’ultima, antologica serata del festival, con quella sua voce che sembra esistere da sempre e che non smetterò più di ascoltare. E poi un’altra leggenda, argentina, come Daniel Melingo che «muovendosi come un pipistrello» ci ha gonfiato il cuore con il suo “tango negro” come in una apparizione ancestrale, e ancora Samuele Bersani e una versione inedita di Billy Budd insieme al padrone di casa, e Margherita Vicario, che appare angelica a far inneggiare la folla con il suo Abauè, “va tutto bene”, ma in africano. E d’un tratto Paolo Rossi, apparizione dalla cassa armonica illuminata, all’ennesimo giro di «faciti rota», con quel sapore di un passato che ritorna, a ricordarci che «non esistono né vita, né morte, ma varietà o monotonia» e come avremmo voluto tutti che solo per quella notte dove tutto sembrava possibile ci venisse a fare visita il suo – il nostro – Jannacci, di cui ci ricorda una battuta storica: «Vuoto di memoria? Meglio in teatro che insala operatoria». E ancora Mintcho Garramone “«he fa corpo di ballo di un nome mitico che un cieco impose alle tempeste degli impalcati da musica». E infine, all’alba, i bassi e i ritmi del dj set di Filo Q, giù nel vallone del “ricovero”, luogo per le anime perdute che hanno bisogno di ritrovarsi. E questo è solo quello che sono riuscita a vivere nell’ultimo fine settimana, ma la lista di artisti e intellettuali che hanno preso parte all’evento è ancora lunga.

Non una fila di troppo per prendere da bere, non una fila di troppo per prendere da mangiare, non un disagio, nulla che non fosse sincronico, solo balli, musica e sorrisi, in un’atmosfera come in un Burning Man tutto italiano, dove al posto del fantoccio di legno da incendiare c’era la nave dei folli e una trebbiatrice volante da scovare, opera d’arte dell’artista Dum Dum, che solo chi aveva il fegato di inerpicarsi verso la salita di Montecanto poteva avere l’onore di scorgere.

Foto: Barbara Pasquariello

«E dopo la processione del baccano, il Ringraziamento», scrive nella sua Gazzetta dello Sponz su IG Capossela, che si aggirava silente per il festival elargendo all’occorrenza anche indicazioni logistiche – per il nostro tempo dei regali e poi tutti insieme, orfani di Christopher Wonder e del sua pazzo jacket.
Lo Sponz, come Carnevale, è morto dopo essersi frecato tutto. Adesso andiamolo a sotterrare nella speranza che resusciti. Due passi avanti, tre passi indietro, al passo lento del perdono. Atena, come per Ulisse, ha allungato indefinitamente la notte. La polvere si è sollevata a folate da sotto le piste danzanti dei piedi. Ha investito le due casse armoniche, guarnite come cassate e l’intavolato centrale da esecuzione. Tutto è sembrato solo sognato, quando la luce ci ha tolto il lenzuolo delle stelle dai piedi. Ma comunque pazzi di gioia e ancora vivi “facimu rota” con il ballo di San Vito addosso. Un ballo che raggiunto il punto del parossismo poteva non finire mai. Ma infine è finito. Grazia. Ora possiamo dirlo. Ci siamo frecati tutto. Il campo è vuoto dopo il raccolto. La ristoccia può ardere a fertilizzare la terra, che ne patisce il lutto. Affidiamoci alla Resurrezione».

E in effetti, che si dia pure inizio all’autunno. Dopo lo Sponz Fest l’estate può finire, nulla di più clamoroso può più accadere.

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