«Tu vedi qualcosa?», chiede un ragazzo alla fidanzata. La sventurata non vede granché e non perché è bassetta, ma perché siamo gli ultimi. Siamo quei puntini lontani, avete presente? Quando riprendono Bruce Springsteen da dietro manco ci vedete perché siamo a centinaia di metri di distanza dal palco, dietro a tutti gli altri. Siamo quelli dimenticati dalle cronache, eppure contiamo, nel senso che facciamo numero. Siamo l’orgoglio degli organizzatori e degli artisti, che interagiscono con quelli delle prime file, però poi è grazie a noi folta retroguardia che possono dire: eravamo in 70 mila, praticamente una famiglia, anzi un popolo.
Siccome Bruce Springsteen è uno dei grandi cantori degli ultimi, ho deciso di seguire il suo concerto dal fondo, dove questi benedetti ultimi bivaccano, mangiucchiano, ascoltano la E Street Band. L’ho fatto anche per liberarmi dalla narrazione dei superfan, quelle delle file organizzate per stare sotto il palco, quelli che tengono il conteggio delle canzoni che Bruce fa e non fa, quelli che valutano la bellezza dei concerti misurandone la durata. L’ho fatto perché i grandi eventi sono fatti anche di esperienze come queste (a questo link la recensione del concerto fatta dal pit).
E allora eccomi qua, al Prato della Gerascia, determinato ad essere lo spettatore numero 70 mila del concertone, l’ultimo fra gli ultimi, quello più in fondo. Tira aria da Festa dell’Unità anni ’80. Niente trepidazione, niente attesa. I fan si fanno selfie, mangiano patatine fritte appoggiati ai bagni chimici, dividono gli spazi con chi è in fila per la cassa token, la maledetta moneta di scambio dei megaconcerti che serve a controllare il flusso dei contanti e su cui stasera c’è scritto “Io c’ero. Monza. 25/07/2023”. Col senno di poi avrebbero potuto scrivere “Sono sopravvissuto al deflusso di Monza. 25/07/2023”. L’aspetto positivo: non c’è acquisto minimo, puoi anche scambiare due euro («in contanti, il pos che funziona è di là») con un singolo token per comprarti una bottiglia d’acqua («scusa, amico, sono tutte calde»).
In fondo al pratone non si capisce dove finisce il popolo degli ultimi e inizia il popolo degli acquirenti di birre. La gente parla in tre, quattro, cinque lingue diverse. Il miscuglio è fenomenale. Una mamma nordica tiene al guinzaglio una bimbetta bionda, qualcuno sbadiglia anche se sono solo le 19:40, un bambino in passeggino indossa enormi cuffie antirumore. Una ragazza sta mandando un messaggio a un’amica e domanda come si scrive Springsteen, un’altra dice che Bruce dovrebbe chiedere di sedersi in modo che anche quaggiù lo si possa vedere. Suo zio fa notare che Springsteen non è un prete che ti fa alzare e sedere come alla messa. Un tizio col binocolo tiene informati su quel che succede sul palco. «Non è ancora arrivato», dice.
Poi arriva e trenini di persone partono in direzione palco (si fa per dire, il prato è diviso in zone transennate, se non hai il braccialetto non accedi agli altri pit). Su No Surrender qualcuno balla, molti alzano il telefono e fanno video, la maggior parte delle persone esprime la sua approvazione con un ghigno tipo quello del meme di Robert Redford in Corvo rosso non avrai il mio scalpo!. Se vediamo e sentiamo qualcosa è grazie agli schermi con impianto audio appeso. Del palco non vediamo nulla direttamente, neanche un Bruce-formichina, zero.
Ci accorgiamo subito d’una bizzarria. Siamo talmente lontani che il suono ci mette più delle immagini ad arrivare, col risultato che si crea un asincrono surreale tra quel che vediamo sugli schermi e quel sentiamo. Springsteen urla «one-two-three-four!», ma il suono dell’«one» arriva quando nelle immagini lui è già al «four». Quando Bruce s’alterna velocemente al microfono con Steven Van Zandt in una serie di «yeah» l’effetto è ridicolo: vediamo il primo, ma ascoltiamo il secondo e viceversa, manco fosse una scena doppiata da uno che non conosce i personaggi. O forse siamo dentro a un vecchio Blob di Enrico Ghezzi.
Mentre Bruce canta, quaggiù ferve il commercio. Il culo dello spettatore numero 70 mila è attaccato al culo del tizio che sta comprando al banchetto del merchandise una t-shirt alla modica cifra di 50 euro. Anzi no, c’è gente oltre lo stand del merchandise e quindi, mi dico, lo spettatore numero 70 mila dev’essere sulla stradina asfaltata che separa il prato dalle tribune dell’autodromo. Determinato a strappargli il primato di spettatore più lontano dal palco, attraverso la strada, supero la recinzione, m’intrufolo sulla tribuna laterale della parabolica e salgo in cima. Da una parte c’è la pista, con due grossi tour bus parcheggiati all’altezza della staccata dei 50 metri. Dall’altra c’è il concerto. Lo sguardo abbraccia tutto il prato, tutti i pit, tutti i 70 mila. Pensavo che sarebbe stato meglio vedere Bruce a San Siro, da quassù non ne sono tanto sicuro. Dopo aver letto del deflusso da incubo mi compiaccio del mio essere spettatore numero 70 mila. Come dicono le sacre scritture del rock, beati gli ultimi perché saranno i primi a uscire dai concerti con uscite a imbuto.
Torno al Prato della Gerascia. Bruce canta Nightshift e la gente continua ad affluire a centinaia anche se il concerto è iniziato da 60 e passa minuti. Origlio: le strade chiuse, i parcheggi lontani, le navette che non arrivano, la lunga camminata dentro al parco. Un tizio mangia un panino con la salamella appoggiato all’isola ecologica, forse per comodità o forse perché sogna d’essere dietro la transenna della prima fila. Una bimbetta strappa fili d’erba sotto gli occhi vigili della sorella maggiore, tre amici sono seduti in un posto dove non vedono né il palco, né lo schermo, eppure ascoltano e seguono tutto. A occhio e croce, il fatto che Bruce cambi o meno la scaletta qua non frega a nessuno. L’aria è deliziosa, si sente l’odore dolce della cannabis, è una bella serata.
Vado nel pit e torno fra gli ultimi per i bis. Una signora di mezza età ascolta Bobby Jean con le mani strette al petto, commossa. Quaggiù l’assolo di sax suona lontano e bellissimo, la distanza fisica che ci separa dal palco mi sembra ora metafora di quella temporale che ci separa da Born in the U.S.A., da quando Bruce e la signora erano giovani. Quando Springsteen e Little Steven fanno il siparietto sul fatto che è ora di andare a casa, urliamo tutti quanti «noooooo!» anche se sappiamo benissimo che non ci sentiranno mai e che è tutta una recita. La E Street Band continua a suonare, la gente inizia a defluire incamminandosi verso il sottopasso della parabolica completamente al buio, gli addetti alle pulizie raccolgono i rifiuti. Siamo a fine spettacolo, eppure gli ultimi mi paiono più entusiasti che a inizio concerto.
Una ragazza canta appoggiata a un’auto della polizia penitenziaria, sarà la nipote di Johnny 99. Una tizia con la stessa identica pettinatura di Courteney Cox negli anni ’80 balla Dancing in the Dark. Due signore cantano leggendo il testo di una canzone da un foglio A4 che hanno stampato a casa. Il suono fa schifo, ma per un attimo penso che non importa, che è comunque una serata indimenticabile. Credevo che gli ultimi si sarebbero sentiti esclusi, imbucati che guardano da lontano la festa di qualcun altro, e invece persino qui ho visto gente cantare a squarciagola con un sorriso grande così. Sarà pure finita la mistica di Springsteen, come dicono i contabili delle canzonette, ma la gioia è intatta.