«Queste canzoni sono state scritte in gran parte da un certo Gordon Matthew Sumner» dice Stewart Copeland da dietro i tamburi sul palco del Teatro degli Arcimboldi, «e analizzando le musiche e i testi devo dire…», fa un bel sospirone e china la testa, « che quell’uomo è un genio». Ha passato gli anni dei Police a litigare con Sting, gli ha pure rotto una costola nei camerini dello Shea Stadium per aver osato sfogliare la sua copia del New York Times, ma nella tappa conclusiva del breve tour italiano in cui il batterista si esibisce nella rilettura per orchestra del repertorio della band, per il principale autore di quei pezzi ci sono solo parole al miele. Così come per Andy Summers, il terzo Police, nominato il quale Copeland constata che negli applausi del pubblico c’è qualcosa di strano: «Un momento, cosa succede qui? Avete fatto più casino per Andy che per Sting!» E invece forse è tutto perfettamente normale perché Police Deranged for Orchestra, portato in scena ieri sera a Milano, e il giorno prima al Comunale di Ferrara, è una faccenda da cultori, nonostante il repertorio di hit contenuto nell’omonimo album uscito lo scorso anno.
«Ho ripreso in mano i master delle registrazioni e, attraverso le varie piste delle session originali, mi sono accorto che a suo tempo avevamo tenuto da parte molte idee che non avevamo poi utilizzato» ci aveva raccontato il batterista nella nostra ultima intervista insieme, «per esempio assoli di chitarra o linee di basso che ho utilizzato per questo nuovo album e che si ascolteranno anche dal vivo». L’orchestra, nelle due date italiane, è l’Orchestra Città di Ferrara, ventisette elementi diretti da Valentino Corvino e affiancati da una classica formazione rock di cui oltre al chitarrista Gianni Rojatti fanno parte due prestiti provenienti da Elio e Le Storie Tese: Faso e Vittorio Cosma. «Le canzoni originali ma un po’ diverse» sintetizza Copeland all’inizio del concerto prima di lanciare l’ensemble in una scaletta che replica in maniera piuttosto fedele quella dell’album: manca Tea In The Sahara, peccato, ma in compenso ci sono One World, Spirits In The Material World, The Bed’s Too Big Without You e Walking On The Moon, quest’ultima con un Faso in grande spolvero nel botta e risposta con il capobanda.
Più ancora dei nuovi arrangiamenti di Copeland, la cosa che salta immediatamente all’orecchio è banalmente l’assenza della voce di Sting, che ti aspetti saltar fuori da un momento all’altro e invece ovviamente non arriva, nemmeno quando il riff di Message In A Bottle ti convince che c’è solo una persona al mondo che potrebbe iniziare a cantare quel pezzo. La decisione di sostituirla con le soul sisters Sarah-Jane Wijdenbosch, Laise Sanches e Raquel Brown allontana da un lato qualsiasi possibile paragone (esiste un cantante che avrebbe potuto rimpiazzare Sting in un progetto del genere?) ma dall’altro costringe a un cambiamento piuttosto radicale anche delle linee vocali, che sommate a questi arrangiamenti fanno sì che quasi tutti i pezzi siano piuttosto distanti dagli originali della band. E quelli che meno si allontanano dalle versioni di quei cinque storici album sono quelli che funzionano meglio. Every Breath You Take, per esempio: pur ascoltata miliardi di volte nella versione di Synchronicity ha incantato anche agli Arcimboldi. Questione di gusti, beninteso. Ci sarà anche chi giurerà di preferire di gran lunga la Roxanne proposta ieri sera, molto diversa da quella di Outlandous d’Amour. Certo non così diversa da spingere un incauto spettatore a chiederla a gran voce verso la fine del concerto. «Hey, l’abbiamo già fatta» gli risponde bonariamente Copeland, «non l’hai riconosciuta?». Forse quello spettatore si era addormentato. Ecco, se così fosse, anche questo sarebbe un po’ esagerato. Lo spettacolo proposto da Copeland non è entusiasmante come doveva essere vedere i Police all’Hope & Anchor di Londra nel 1978 (e nemmeno come vederli a Venezia nel reunion tour di trent’anni dopo, se è per questo) però dà la possibilità al pubblico di essere portato per mano in una grande storia da uno di quelli che quella storia l’hanno scritta. «Mi prendo più libertà, più impunità, perché provo un senso di proprietà del materiale» ci aveva detto ancora Copeland. «Spingo le cose avanti: non è solo Roxanne, ma è Roxanne con tutte le improvvisazioni che eravamo abituati a fare sul palco». C’è da dire che anche Sting, nei suoi vari tour, ha sempre molto rielaborato i pezzi Police, tenendosi lontano da banali riproposizioni. Per quanto possano essere banali le canzoni di una band che per pochi ma intensissimi anni ha dominato le scene.
L’appunto principale che ci sentiamo di fare al concerto visto a Milano è una certa omogeneità degli arrangiamenti, nel senso che tutti gli strumenti dell’orchestra vanno spesso a mille nello stesso momento, e per cogliere le tante sfumature ci vuole un orecchio molto sensibile, laddove la tavolozza a disposizione data dall’orchestra stessa avrebbe suggerito una maggiore varietà di soluzioni. Anche in questo caso, ci sono eccezioni che confermano la regola: su tutte una Spirits In The Material World in cui fiati, archi e percussioni si prendono a turno la scena.
La noia, comunque, è lontanissima, anche grazie a uno Stewart Copeland divertente e divertito, che a un certo punto sale sul podio e si mette a dirigere («So leggere la musica!»), oppure imbraccia la chitarra per The Bed’s Too Big Without You, non prima di aver spinto l’orchestra a tirare fuori suoni hard («Prima dei Metallica c’era Stravinskij!»). «Wrong band!» risponde invece a chi gli chiede di fare Don’t Box Me In, il singolo di tanto tempo fa scritto assieme a Stan Ridgway per la colonna sonora di Rusty il selvaggio di Francis Ford Coppola. Si finisce con il pubblico in piedi a ballare fin sotto il palco con Every Little Thing She Does Is Magic, uno dei pezzi della serata che meglio hanno fatto incontrare rock e orchestra. Oppure, per dirla con le parole dello stesso Copeland, uno dei momenti che meglio hanno comunicato «le mie visioni di queste canzoni, con il mio stile».