Sting il vanesio innamorato di sé stesso (beh quello ancora un po’), Sting che non si accontenta di essere una popstar e vuole essere riconosciuto come musicista colto e che incide musica barocca per la Deutsche Grammophon, Sting e la leggenda del sesso tantrico per ore, Sting paladino dell’Amazzonia. Quello Sting che voleva scrollarsi di dosso la formidabile parabola rock dei Police sembra non esserci più. A 72 anni non si vergogna dei capelli ingrigiti ma sfoggia sempre un fisico scolpito, messo in risalto da una t-shirt indossata con nonchalance. Da qualche anno l’artista di Newcastle porta in giro per il mondo il suo tour My Songs, semplicemente orgoglioso di dare al suo pubblico i capolavori della band che lo ha reso una star globale, alternati ai suoi successi solisti. Che al netto della cose più mainstream, comprendono comunque almeno due o tre classici pop di sempre (a stare bassi).
Sting si presenta al Forum di Assago per l’unica data italiana, in quella che ormai è la sua patria adozione, alle 20.45. Da perfetto englishman in Chiantishire, in un un clichè che più stinghiano non si può, trascorre gran parte dell’anno nella sua tenuta del Palagio, nelle colline a sud di Firenze, dove produce Chianti, Sangiovese e olio biologico. E la canzone che apre il concerto si chiama proprio come uno dei suoi vini, Message in a Bottle… La sequenza iniziale è semplicemente perfetta con Englishman in New York, Every Little Thing She Does Is Magic, If You Love Somebody Set Them Free e Spirits in the Material World, quest’ultima un colpo al cuore per i fan dei Police.
La band viaggia a mille, con il fido chitarrista Dominic Miller e il batterista Zach Jones che assecondano Sting, al basso, con un sound che sta tra i Police e il tour di The Dream of the Blue Turtles, con sfumature soul-jazz ma senza perdere il tiro del trio inglese. Sting, detto per inciso, canta alla grande, senza sforzi, sui registri alti caratteristici delle sue canzoni. E incredibilmente il Forum restituisce un suono pulito, sentito raramente nel palazzetto alle porte di Milano. La parte centrale è un po’ più debole, If I Ever Lose My Faith in You è lo Sting che non ci piace, ma Fields of Gold e Shape of My Heart restano due brani inattaccabili. Sting poi omaggia l’Italia con un duetto con la ex protagonista di Amici Giordana Angi, entrata nelle sue grazie artistiche e ospitata sul palco per un duetto in italiano su Her Love, che diventa Amore, interpretata nella nostra lingua.
Ma Sting ha ancora altre cartucce da sparare. E sono proiettili che stendono. Arrivano Walking on the Moon e So Lonely, che diventa una lunga jam in cui c’è spazio per la citazione del Bob Marley di No Woman No Cry, giusto a ricordare chi mischiò il reggae con il rock a fine anni ’70. Poi c’è l’incursione in Medio Oriente di Desert Rose e la perla di Synchronicity, King of Pain. Every Breath You Take è accelerata e ha un piglio rock godibilissimo ed è seguita da un altro classico, forse il classico per eccellenza dei Police, Roxanne, con Sting che lascia il suo classico aplomb e trasforma il ritornello in un coro “Milano, Milano”, manco fosse Springsteen o Bono.
Il vecchio piacione (detto con affetto) chiude, come sempre, su un tono romantico, con l’arpeggio che sa di Andalusia di Fragile. E a quel punto non si può far altro che applaudire uno splendido settantenne che ha imparato a buttarci in faccia il suo talento e la sua figaggine senza la spocchia di una volta.