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Tedua al Forum e la maledetta voglia di piacere a tutti

Il concerto di ieri è stato un successone, ma nel passaggio alla dimensione live della ‘Divina Commedia’ il trapper esagera nella semplificazione, nel pop-rock da palasport, nei visual didascalici, perdendo mordente. Si può rischiare di più

Foto: Arianna Carotta

Il lavoro, paga (uno); la voglia di migliorarsi, pure (due); il voler essere profondi e intelligenti non è un ostacolo, anzi (tre). Questo santo trittico così poco italiano (cfr. Stanis La Rochelle) è assolutamente perfetto per descrivere il più sorprendente nuovo protagonista della musica italiana: Tedua. Perché sì, i numeri li fanno anche altri, certo; i tour trionfali li fanno anche altri; e anche nella sola faccenda del rap Marracash col suo Marrageddon si è portato tutti e tutto a casa. Ok. Ma il vero newcomer nella casta dei grandi per questo 2023 è il genovese Mario Molinari in arte Tedua. Sia messo agli atti. Un tour nei palasport – con tanto di date plurime al Forum di Milano – già tutto sold out in prevendita. Un appena annunciato slot da headliner negli I-Days 2024 (prima volta che un artista italiano arriva a tanto, in un festival storicamente esterofilo). Dischi di platino a pioggia.

E tutto questo, attenzione, è tutto tranne che un successo annunciato. Anzi. Perché nasce da un disco, La Divina Commedia, uscito a giugno 2023, tanto ambizioso quanto sofferto. Quasi un Chinese Democracy della scena (t)rap italiana, per capirci. Un disco in cui Tedua si è consumato fino all’esaurimento nervoso, facendo e rifacendo, incidendo e buttando e incidendo di nuovo, misurandosi con le aspettative su se stesso e anche con la grandezza del volersi sintonizzare con vette narrative dantesche, eh già, addirittura dantesche, nientedimeno, ovviamente in nitida e tagliente salsa urban contemporanea.

Pensando a come il trapper medio faccia tre rime in croce con concetti se va bene fratturati e frastagliati e pensi che questo sia già più che abbastanza per raccogliere gloria, amore ed euroni sonanti (dal 2016 fino a due anni fa effettivamente è stato così, mo’ vediamo), si capisce quanto Tedua sia invece atipico; e si capisce anche che tutto questo suo sforzo poteva essere un rovinoso e presuntuoso passo più lungo della gamba, o anche semplicemente una puttanata di uno che si crede stocazzo sull’onda di un successo ancora acerbo. Sì. Poteva decisamente esserlo.

Nulla di tutto questo, invece. La Divina Commedia teduesca è finita coll’essere, nella sua versione finale, un disco importante, un lavoro di rara intensità; qualcosa che alza l’asticella nel rap italiano, ma soprattutto la alza a livelli siderali per tutti coloro che arrivano dalla rivoluzione trap (quella appunto per convenzione circoscritta al punto di svolta temporale del 2016) segnando chiaramente il confine, ora e per il futuro, tra chi in quella scena il talento ce l’ha e chi invece ha solo vissuto o sta vivendo momenti di grazia effimera e isterica.

Invece di essere un peccato di hybris (e poteva esserlo), La Divina Commedia si è trasformata in un trionfo anche commerciale – non per culo o gossip, ma per la cura e per l’amore che si è messo per dare vita a questo album. La gente ha capito lo sforzo dell’autore. Il suo volersi migliorare a costo di rovinarsi la vita e fottersi il cervello, mandare a soqquadro il suo equilibrio emotivo, invece di godersi i successi di piccolo cabotaggio passando all’incasso e alle seratine in discoteca a fare 20 minuti di showcase e selfie. Ha capito quanto sia stato sincero e intenso il suo arrovellarsi emotivo, la sua voglia di creare un affresco – personale e sociale nella stessa misura – davvero ambizioso. In sintesi: non è insomma vero che la gente vuole sempre e solo stronzate e cose leggere. Quando trova qualcosa di davvero autentico e ben fatto, lo sa riconoscere. E premiare, accidenti.

Foto: Arianna Carotta

Ecco. Questa lunga promessa è necessaria per contestualizzare bene il tour legato a La Divina Commedia. Tour che è già passato per Genova (la città natale di Tedua e suo grande orgoglio) e che ieri è sbarcato a Milano (per un po’ città adottiva, per qualche anno della sua vita molto importante e artisticamente formativo), dove tornerà per altre tre date oltre a quelle di Bologna, Napoli e Torino. Tour che appunto sta ottenendo un successo oltre ogni aspettativa, nessuno si aspettava cioè così tante date e così tutte sold out, e che ha fatto fare un salto di qualità radicale al suo protagonista, di quelli che veramente ti cambiano la vita, la carriera, lo standing nell’industria discografica e nell’immaginario pop(olare).

Non era per nulla scontato che le cose andassero così bene. Non era per nulla scontato che lavorando sull’intensità, sull’ambizione artistica e sulla qualità Tedua crescesse a dismisura come impatto e popolarità, invece di essere abbandonato dal suo pubblico trapperino da un lato e snobbato dai normalz dall’altro. Capite? Per avere successo, anzi, per avere tanto successo, non per forza bisogna puntare al ribasso. Anzi. La Divina Commedia come disco è stato premiato da una pioggia di dischi di platino e un ascolto che si sta protraendo nel tempo; il tour ad esso legato, da una serie micidiale di sold out nei palasport che ha sfondato il muro dei 100 mila biglietti venduti complessivi. Non sono cose che ottieni con l’hype; sono cose che ottieni se la gente ti segue e ti ascolta davvero, con consistenza. E Tedua, alla gente, non ha parlato facile. Tutt’altro.

O meglio. Un po’ l’ha fatto. Ma involontariamente. Perché il suo volersi distaccare dalle bagatelle della trap più disimpegnata e/o decerebrata lo ha portato a imbracciare dei modelli che più classici non si può: la Divina Commedia dantesca, appunto. E per il live, una veste sonora molto più tradizionale e adulta, un pop-rock da stadio – una specie di linea mediana tra Ligabue e gli 883 – che andasse a rendere universale e transgenerazionale il suo mondo sonoro, patina con cui ha diluito l’urgenza urban/trap da cui proviene (e che ancora traspare pesantemente – e per fortuna).

Dal punto di vista visuale e scenografico poi Tedua è stato didascalico al massimo, affidandosi a terzi – professionisti bravissimi, ma a occhio non con la sua sensibilità urban – che hanno creato delle immagini, dei fondali e delle scelte drammaturgiche più adatti a una rappresentazione teatrale. Non pensiamo l’abbiano fatto all’insaputa o contro la volontà di Tedua stesso, sia chiaro. Anzi: probabilmente l’indirizzo dato è stato proprio questo perché l’artista genovese ci tiene così tanto a comunicare l’intensità e la maturità della sua attuale fase artistica, professionale e personale da sincerarsi di utilizzare messaggi e stilemi che siano comprensibili a tutti, adulti e piccini, mediomen e spaccini.

Tutto questo, onestamente, è un peccato. Siamo convinti che questo tour funzionerebbe di più e meglio se Tedua si fosse fidato più del suo istinto più grezzo e meno di scelte da salotto buono ed educato. Per dire: è stato molto più cazzuto Salmo nel suo tour da palasport, con scelte veramente forti e non solo didascaliche, ma perfino Sfera – che non ci ha convinto del tutto nel suo tour indoor – in qualche maniera era più coerente e reale, più se stesso. Tedua è come se si fosse (in parte) addomesticato e semplificato, musicalmente e scenicamente, per l’ansia di rendersi comprensibile e leggibile da tutti. Ok. Lo capiamo. Chi poteva sapere che il tour sarebbe stato così trionfale già prima ancora di iniziare? Chi poteva credere che La Divina Commedia fosse già entrato già così tanto e così visceralmente nell’immaginario collettivo?

Foto: Arianna Carotta

Alla fine le cose che funzionano meglio nello show sono le luci (essenziali, ma muscolari e forzute, e questa caratteristica serve a riequlibrare la didascalità dei visual) e i filmati repertorio proiettati tra un cambio d’abito e l’altro (sì, mo’ i rapper fanno i cambi d’abito come le soubrette, e i loro stylist finiscono nei comunicati stampa quanto e più dei musicisti sul palco: non capiremo e non apprezzeremo mai questa deriva, scusate). Un’altra cosa che funziona divinamente è Tedua stesso, almeno finché ne ha: dal vivo il suo flow assume pienamente valore, arriva come niente e nessuno, e quello che inizialmente pareva un andare-fuori-tempo in realtà è, invece, portare il flow a un livello superiore nel gioco dell’hip hop. Davvero impressionante. Peccato che, probabilmente per inesperienza e anche perché il concerto è davvero tanto lungo (due ore), il protagonista sul palco non dosi perfettamente le energie e, a due terzi, pare perdere un po’ d’impatto, di fisico e di fiato. Ma questi sono trucchi che si imparano col mestiere e macinando tour grossi anno dopo anno. Nessuno nasce imparato. E anche Vasco non è nato Vasco.

Per il resto, come già detto, non ci sono piaciuti i riarrangiamenti della band, davvero troppo canonici, e che rischiano di portare Tedua in un campo pop-rock probabilmente più di quanto lui voglia veramente (anche perché Tedua, in tal senso, ci sembra molto meno malleabile e bonaccione di Rkomi, uno che ha deciso sì di adeguarsi al pop-rock abbandonando il tremendismo trap delle origini, e vediamo che farà Lazza). Non ci hanno fatto impazzire i visual e nemmeno le scenografie, entrambi molto didascalici e non così creativi o spettacolari. Non ci ha fatto impazzire la dinamica complessiva dello show, pezzi tutti separati l’uno dall’altro, mai una sorpresa, mai un medley, mai un vero crescendo spiazzante e/o esaltante. Soprattutto, non ci ha fatto impazzire – anche se umanamente e professionalmente lo capiamo – che Tedua non si sia fidato di se stesso, non abbia voluto stravolgere le regole del gioco, non abbia confezionato uno show nuovo e diverso ma abbia seguito le regole canoniche dello show-pop-rock-da-palasport, stando attento a veicolare in modo chiaro e lineare – troppo chiaro e troppo lineare – i messaggi e le reference più semplici.

Siamo convinti che lui possa rischiare molto di più e fidarsi maggiormente di se stesso, del suo spessore intellettuale e del suo talento lirico trasponendoli anche nelle scelte estetiche e produttive di un live show, rendendo davvero l’Italia un posto migliore per chi ama e segue la musica sia pop che urban (e mai come in questi anni a ‘sti due universi capita di sovrapporsi). È bravo, è intelligente, ha talento, ha il giusto mix di ambizione e umiltà, non cerca scorciatoie o semplificazioni. In attesa di vedere che faranno i suoi colleghi trapper (ma i più bravi, i più profondi, sono proprio i suoi corregionali, quelli ritratti nel documentario La nuova scuola genovese), se e come riusciranno ad alzare l’asticella oltre i luoghi comuni del genere, siamo felicissimi che lui raccolga quanto ha seminato. E siamo tuttavia anche qua a dirgli: bello, bravo, ma se ti fidi di te stesso e della tua urgenza emotiva, estetica, espressiva puoi fare ancora di più. Davvero. Non c’è bisogno di semplificare così tanto le cose. Semmai, c’è bisogno di rischiare. Quel rischio che ti sei preso lavorando millemila anni e a forza di esaurimenti nervosi in un disco come La Divina Commedia, invece di sfornare hittine pronto-uso con i featuring giusti e furbetti.

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