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Tedua agli I-Days di Milano, per arrivare al Paradiso manca ancora qualcosa

In due serate ha radunato circa 55 mila persone, ma nonostante il carisma, la scaletta e gli ospiti (Annalisa, Sfera Ebbasta, Angelina Mango, Capo Plaza), qualcosa non torna. Per fare l’ultimo grande salto c’è bisogno di un ultimo grande sforzo

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Sarà che quelle mosse sempre troppo accentuate sono diventate uno stilema a suo modo affascinante, sarà che quel modo di rappare mai completamente sul tempo è diventato un marchio estetico o sarà la scelta di condire il dialogo con il pubblico con una retorica motivazionale a metà tra una buona punchline e un manuale di auto-aiuto (l’ormai celebre claim «Non lasciate che la vostra umiltà si trasformi in insicurezza e che la vostra sicurezza si trasformi in arroganza» ne è un buon esempio), ma Tedua sul palco ha oramai sviluppato un carisma unico.

Il (t)rapper di Cogoleto, per ricordarcelo e ricordarselo (sembra spesso che anche lui abbia bisogno di un promemoria sulle sue qualità), ha occupato per due sere l’Ippodromo San Siro a Milano per gli I-Days. A sei mesi dal primo giro di date al Forum di Milano, Tedua riparte più o meno da dove aveva lasciato, senza grandi stravolgimenti nel live. Di mezzo c’è stata l’ospitata sanremese e l’uscita dell’ultimo capitolo della sua Divina Commedia (il Paradiso), ma in questo weekend più che fare l’ennesimo salto in avanti Tedua si è limitato alle (auto)celebrazioni di un anno decisivo per la sua carriera.

Lo show non è male, ma non risolve i difetti visti ai Forum, né Tedua sembra aver intenzione di cercare nuove soluzioni o direzioni. E questo, in chiave di inferni e paradisi, è un peccato. Lo show è infatti costruito quasi interamente sul carisma di Tedua. Tutto ruota attorno alla sua energia animale (che in Italia potrebbe ricordare quella da capopopolo di Cosmo), che si manifesta continuamente nelle mossette di cui si è già accennato, tra pugni al vento, coreografie istintive disegnate con le mani nell’aria, salti (e anche una serie di trazioni fatte a fine concerto nel retropalco, naturalmente mostrate al pubblico sui maxischermi). L’idea è semplice, e anche giusta, se non fosse che nei momenti più soft e in alcune ospitate mostra un po’ il fianco.

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Tedua è accompagnato, come al Forum, da quattro musicisti, tre coristi, un dj e l’amico di sempre Vez Tè a fargli le doppie. Il concerto si allinea quindi a quello che oramai in Italia è diventato un must: il rap suonato con la band. A livello concettuale, come succede per altri colleghi, potrebbe funzionare, ma maneggiare una band quando si tratta di urban e di groove non è sempre facile. Se all’estero gli americani ci hanno insegnato che il miglior modo per far funzionare questa scelta è affidarsi al beat, appoggiarsi, tornando così alle radici black del genere come il funk, l’r&b, il soul, in Italia troppo spesso ci troviamo ad assistere a una trasmutazione banalotta del sound in quel pop-rock che sogna Vasco ma che finisce inesorabilmente per fermarsi ai tentativi nazionalpopolari di Achille Lauro. Il problema di arrangiare certi beat in chiave pop-rock è che alcuni pezzi finiscono inevitabilmente per piantarsi, perdendo groove. Se negli album le chitarre sono calate in un contesto ritmico di 808 e drum kit trap, dal vivo il rischio è quello di impantanarsi nella rock-band-del-liceo (non a caso la citazione dei Phantom Planet), non per la qualità dei singoli strumentisti, che sono sul pezzo, ma per il risultato sonoro complessivo. Non a caso quando a dominare è la chitarra acustica si finisce per muoversi paurosamanente in zona oratorio. Capiamo che qui si sta parlando – e cantando – di Paradiso, il più cristiano dei concetti, ma musicalmente il risultato non è esaltante come potrebbe essere. Così oggi, così ieri al Forum.

La magia del live di Tedua è altrove. Non è negli arrangiamenti, non è nell’outfit con cui cerca giustamente di smarcarsi dall’estetica del trapper-col-borsello di molti colleghi ospiti di questa due giorni, né tantomeno nella scenografia (questa volta un passo indietro rispetto a quella Forum, se non per i visual, che portano avanti un’estetica fatta di morphing acquerellosi di battaglie, demoni, santi e paradisi), ma nella capacità di Tedua di farci credere nella sua visione. Qualcuno diceva che per raggiungere un sogno bisogna convincere le persone attorno a te di quel sogno e Tedua questo sa farlo in modo speciale. Così speciale da farci digerire senza troppe difficoltà certi passaggi cringe della performance (su tutti il finale interlocutorio della seconda data in cui al posto di chiudere con il botto finisce per perdersi in un momento di strano egotrip in cui, seguito da una camera che proietta le immagini sul maxischermo, firma autografi alle prime file mentre l’impianto suona a tutto volume la versione in studio di Outro Purgatorio), il tempo mai a tempo (e dannazione se piantate tutto con il pop-rock continuerete a evidenziare questa debolezza!), l’ossessione dell’artista per i numeri e – soprattutto, come già raccontato qui – dei commenti sui social («Questa canzone ha ricevuto tanti commenti in direct», dice di un suo brano, «il sindaco ci ha detto di chiudere alle 23, so che domani vi lamenterete su TikTok dei brani che non ho messo in scaletta», ripeterà varie volte). Se non è magia questa.

In un live che – alla fine dei conti – suona più come un’occasione persa di alzare ancora l’asticella, Tedua davanti alla sua gente (i 55 mila dei due giorni) ne esce comunque vincitore. Dalla sua ha il carisma, gli ospiti delle serate (tra i tanti Annalisa, Angelina Mango, Sfera Ebbasta, Lazza, Capo Plaza, la Drilliguria) e 12 mesi di successi. Ma più che dell’ennesimo rilancio della sua carriera, qui parliamo semplicemente della chiusura di un cerchio.

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Nel calderone degli artisti urban italiani, Tedua resta saldo sul podio di quelli più intriganti, talentuosi, intelligenti. Rispetto ai colleghi, molti graziati al di là di ogni buonsenso, è un artista in missione e per questo l’attenzione su di lui e sulle sue scelte sarà sempre maggiore. Ma l’ambizione si sa, è un’arma a doppio taglio: se da una parte conferisce quell’energia extra che ha portato Tedua a spingersi al di là dei propri limiti, dall’altra è un carico che porta con sé molte aspettative. Per questo un’occasione sprecata, una scelta rimasta a metà, una possibilità non propriamente colta hanno un peso specifico differente rispetto al mare di mediocrità di gran parte della scena (urban e mainstream) circostante. Da Tedua ci aspettiamo molto perché in passato ci ha già dimostrato che ogni passo in avanti può essere un salto. Perché al nazionalpopolare ci si può arrivare anche affidandosi al talento, anche continuando a stupire (un chiaro esempio la collaborazione per l’estetica con David LaChapelle).

Forse ora l’unico freno di Tedua, paradossalmente, è proprio lui stesso e la paura di deludere gli altri. Se riuscirà ad allontanarsi dalla pressione asfissiante di commenti e social per focalizzarsi su quello che sente davvero della sua arte (magari coadiuvato da un team più attento alla direzione creativa dei live), l’asticella potrebbe alzarsi a un livello a cui nessun altro collega della sua generazione sembra ora in grado di arrivare. In questo momento, e in particolare nella sfera dei live, non siamo ancora lì, ma manca poco. Forse oltre a provare convincere tutti noi, a volte, Tedua dovrà imparare a convincere se stesso, ignorando il rumore di fondo. Noi ci speriamo, l’urban italiano ne ha disperatamente bisogno.

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