Il Doss, per chi non è molto pratico di Trento, è uno sperone di un 300 metri circa che domina il capoluogo della regione. È considerato un parco naturale, ma i suoi principali luoghi d’interesse sono di tipo storico/archeologico. Ci trovi un Museo degli Alpini, i resti di una basilica paleocristiana e, al suo apice, visibile praticamente da ogni angolo della città, svetta un monumento di epoca fascista, composto sostanzialmente da un colonnato circolare: è il mausoleo di Cesare Battisti.
Personalmente l’ho trovato a primo impatto una presenza tetra, inquietante. Non certo perché ospita le spoglie mortali del politico e patriota della Grande guerra (e quindi sì, è una tomba). Quanto, piuttosto, per il motivo stesso per cui fu eretto nel 1935: l’esaltazione di un eroe di guerra irredentista e soprattutto interventista. Lo stesso sentimento che, qualche anno più tardi, avrebbe trascinato le nazioni in un conflitto mondiale, nefasto per milioni di persone ma estremamente redditizio per i pochissimi che possedevano fabbriche di armamenti. Ci sono ancora quattro cannoni calibro 105 a pochi metri dal monumento, che puntano minacciosi su Trento, come a revocare spettri e pensieri che, con l’aria che tira di questi tempi, non sembrano più tanto lontani.
Meno male che, da sette/otto anni a questa parte, proprio nell’area davanti al mausoleo, un festival molto figo anima di vita il silenzio tombale del monumento: il Poplar. Quest’anno, sbandierando un condivisibilissimo “No Geography” come motto, l’eventino ha sfoggiato una line-up davvero interessante, a tratti surreale. Quello a suonare il primo giorno (giovedì 12) davanti a 3000 persone era lo stesso Yung Lean che ha aperto per Travis Scott a luglio all’Ippodromo Snai di Milano, davanti a 3000 + 70 mila persone? Sì. Ma qui è stato molto meglio, mi sa.
L’atmosfera manco a dirlo era molto più intima, e per questo più “vera”. Red Bottom Sky, che è una delle migliori canzoni scritte nel pop degli ultimi 20 anni, penso l’abbia cantata davanti al miglior pubblico possibile. Un’orda presa bene, agitata ma educata di ventenni ben preparati. Qui, il machismo dei reggimenti di fanteria traviscottiana è stato sostituito da un manipolo di elfi e fatine della cosiddetta Gen Z, con pochissimi cellulari alzati a fare video e tanta energia da spendere nel pogo.
Il merito di questa vibe è stato anche di chi ha suonato prima del giovane Lean, che comunque è uscito dal palco tutto soddisfatto dopo una quindicina di brani, tra cui vecchie glorie (Ginseng Strip 2002), nuovi inni di Internet (il remix di 360 di Charli XCX) e qualche cover (Diamonds di Thaiboy Digital). Prima c’è stato un Kid Yugi impeccabile che si sta godendo tutto il successo e le catenazze d’oro che si merita. C’è stato un Emma in gran forma che col suo calderone di pensieri emo su basi glitch, hyperpop, breakcore ci ha regalato il momento più iconico dei due giorni su quattro in cui ero presente al festival: una tipa nel pogo che faceva i video con un Nintendo DS.
Vorrei tanto dire che Ele A, anche lei in programma il primo giorno, è la rapper più forte in Italia, se non fosse che è svizzera. Menzione speciale per Evissimax, alla quale non bastava essere una delle dj più adrenaliniche di Milano, ma proprio al Poplar ha iniziato una nuova fase della sua carriera. Una coraggiosa metamorfosi che porterà sempre più a set ibridi consolle-voce e, chissà, forse un giorno a dei veri e propri live. In ogni caso, bravissimax.
Il secondo (e mio ultimo al festival perché onestamente sono entrato in quell’età in cui farne tre di fila potrebbe risultare fatale) si è svolto in maniera più abbottonata ma comunque danzereccia. Il motivo va ricercato sicuramente in un target più adulto degli artisti in programma. Anche l’arrivo improvviso di una quindicina tra carabinieri e poliziotti, in aggiunta alla normale quota richiesta da un evento simile, ha sicuramente remato contro a una serata che comunque si è conclusa in un successo.
Il motivo di questa apparizione delle forze dell’ordine? Apparentemente un dissing di qualche consigliere comunale di Fratelli d’Italia, che dopo il primo giorno pare abbia pubblicato su un qualche giornale locale un’invettiva contro il festival sostenendo il mancato rispetto delle capienze. Ora, tolto che nessuna prova è stata presentata nell’accusare il Poplar, vorrei cercare di astrarre un pochino l’accaduto. Non è successo poi nulla, perché il festival le capienze le rispetta eccome. Però, ecco, vorrei buttare lì uno spunto di riflessione. Una persona di un partito, sia pur di maggioranza, critica un evento. Di tutta risposta, il giorno dopo si presentano al suddetto evento dozzine di persone armate. Legalmente autorizzate a portare armi, certo, ma comunque armate. Tu sei lì, con la tua birretta in mano, a cercare di capire quanti cartoni si possano essere calati gli Yīn Yīn per suonare così male ma comunque andarne fierissimi, e di fianco a te c’è un signore in divisa blu, con la mano appoggiata sulla 9 millimetri, che ti fissa. Tu birretta, lui Beretta. Spunti. Cose a cui sarebbe meglio fare caso sempre.
Tornando a noi. Grandi fan della lore UK garage di stampo Burial tra gli artisti del giorno due. Sofia Kourtesis apre il suo live con un treno 2step rarefatto che sembra uscito da Untrue, mentre Apparat, beh, tra lui e i Modeselektor (Moderat) sull’eredità di Burial ci hanno costruito non dico una carriera ma quasi. Tutto questo per dire ci sta, niente da obiettare, però boh, non bisogna esagerare altrimenti sembri poi una cover band.
Cucciolini patatissimi sempre mega bravi invece i Mount Kimbie, che ormai sono ufficialmente passati da duo a quartetto. Anche se poi sul palco sono cinque (?). Tanto carino l’ultimo disco The Sunset Violent, pieno di bellissimi omaggi alla new wave, al krautrock, alla musica buona fatta con gli strumenti e i synth. Le tracce cantate da King Krule qui le cantava l’impassibile Dom, che a maggio su C41 Magazine mi aveva confidato che, cito testualmente, lo stesso Krule «a quest’ora sarebbe parte della band a tempo pieno se non fosse così spaventosamente famoso». E come dargli torto.
Il festival ha proseguito indisturbato e sereno ancora tutto sabato e domenica, lasciando alle spoglie mortali di Cesare Battisti, poche decine di metri dietro al palco, il lusso di potersi ascoltare aggratis i live di Viagra Boys, Auroro Borealo, Laila Al Habash, I Hate My Village e compagnia suonante. Gli saranno piaciuti? Poco c’importa. Sono i vivi, non i morti, che c’interessano. Quelli che si fanno chiamare “fratelli” ma che, di fraterno, non hanno proprio nulla.