Tom Barman esce da un bar vecchia maniera della sua Anversa sotto una pioggia battente, arrivata a interrompere bruscamente quella che ci dicono essere stata la prima giornata di primavera in città dopo mesi di cielo grigio, e si infila trafelato nella sua vecchia Fiat 500 blu degli anni ’60, scomparendo nella serata tra le vie medievali del centro.
Poco prima, dopo aver bevuto l’ennesima Tripel Karmeliet del pomeriggio, una birra nata da una ricetta del ‘600 dei frati carmelitani fiamminghi di Dendermonde, ci siamo salutati con il cantante dei dEUS, con il quale ci conosciamo da una quindicina d’anni, dandoci appuntamento una dozzina di giorni più tardi, ai Magazzini Generali di Milano, mercoledì 29 marzo per l’unico concerto italiano del tour del gruppo belga, che presenta il nuovo disco How to Replace It.
La sera prima, nel venerdì del giorno di San Patrizio, abbiamo assistito all’ultimo dei quattro show, tutti sold out, della band all’Ancienne Belgique di Bruxelles, una fantastica sala da concerto da 2000 persone degli anni ’30 con una platea, una galleria centrale e balconate laterali che danno l’effetto teatro, e con un’acustica perfetta. Un posto fatto per la musica, fantascienza nella nostra povera Italietta. Ma lasciamo perdere.
I cinque di Anversa, con il chitarrista Mauro Pawlowski rientrato in line-up dopo qualche anno di assenza, danno vita a uno show rock scintillante, incentrato sul nuovo lavoro ma nel quale sono stati inseriti i brani più adatti a rendere il concerto omogeneo. Che non vuol dire monocorde. I dEUS non sono mai monocordi neanche all’interno di una stessa canzone, con cambi di ritmo e atmosfera, deragliamenti e deviazioni, ma mai fini a sé stessi, sempre al servizio del brano. Si pensi a Instant Street, la ballad acustica perfetta, pronta per scalare le classifiche, che loro invece trasformano nel finale in una selvaggia cavalcata noise rock che la rende un piccolo capolavoro, relegandola però inevitabilmente al meno remunerativo destino di indie hit.
La loro cifra è proprio saper sorprendere all’interno di un genere come il rock che sembra ormai aver poco da dire di nuovo. Ed è sorprendente come dopo quasi 30 anni di carriera i dEUS siano riusciti a fare un disco del livello di How to Replace It, dopo 11 anni di silenzio discografico (ma con un’intensa attività live) quando in molti li davano per finiti artisticamente. Tra i motivi c’è sicuramente l’iperattività artistica di Barman come sceneggiatore e fotografo oltre ai suoi side project musicali come Magnus e Taxiwars, come ha raccontato a Rolling Stone.
E allora ecco il nuovo album, che suona fresco e maturo allo stesso tempo, con una sensualità oscura alla Leonard Cohen, ma dove il ritmo la fa comunque da padrone, grazie al gran lavoro del bassista Alan Gevaert e del batterista Stéphane Misseghers, fondamentali sul palco per la compattezza e il tiro dei dEUS, ma anche per il loro contributo ai cori, mentre il polistrumentista Klaas Janzoons cuce insieme il sound e spariglia le carte con il suo violino elettrico, responsabile delle svisate alla Velvet Underground, marchio di fabbrica dei primi dEUS.
«Questo tour è ritmo e amore», mi dirà Tom in un’altra tappa del nostro pub crawl pomeridiano ad Anversa insieme all’amico comune Leonardo Colombati, scrittore romano che ha messo Barman tra i personaggi del suo ultimo romanzo Sinceramente non tuo. I dEUS giocano in casa stasera e i 40-50enni con l’aria da professionisti creativi che li seguono dagli anni ’90, quando i Deus erano la next big thing dell’indie rock e la musica con le chitarre era tornata al centro del mondo, hanno l’aria soddisfatta di chi ha ritrovato una certezza.
Barman padroneggia la scena con mestiere, ma anche con l’entusiasmo dato dalle nuove canzoni in cui crede molto. Introdotti dalla cinematica title track sfilano i nuovi pezzi, il rock potente di Man of the House e Pirates, la ballad pianistica e intima di Love Breaks Down, le reminiscenze anni ’80 della malinconica 1989, l’avvolgente Dream Is a Giver che ricorda le atmosfere di un grande disco come Dusk dei The The (quando lo dico a Barman si entusiasma per il paragone e si ripropone di andare a riascoltarlo). I dEUS li alternano a oldies e brani più recenti, la galoppata di Constant Now, le atmosfere da colonna sonora noir di Quatre mains, il funk sghembo di The Architect, Instant Street e le velvettiane Sun Ra e Roses. C’è spazio anche per una rara Nothing Really Ends, una meravigliosa sceneggiatura mélo a tinte jazz (e mi sono sempre chiesto quale fosse il film in cui Martin Sheen cinge una ragazza con il braccio del testo), con la chiusura affidata a una furiosa Bad Timing.
Dopo il concerto i membri dei dEUS arrivano alla spicciolata in un piccolo cocktail bar a due passi dal club per incontrare qualche amico, senza che gli avventori del venerdì sera siano particolarmente impressionati dalla presenza della più famosa rock band belga. Si beve qualche drink, in un’atmosfera da serata tra amici, lontano dagli eccessi di un aftershow rock. «Pensa che quella di ieri sera è stata la serata più rock’n’roll che ho fatto nel tour», mi confida sorridendo Barman il giorno dopo a pranzo in un ristorante ad Anversa, ignaro però del pomeriggio alcolico che lo aspetta. Questo è il rock dei 50enni ed è un bene che esista ancora. Ma io, se avessi 20 anni, un orecchio ce lo presterei.