È un giovedì di maggio sul pianeta Terra, il cielo sopra la pianura padana sembra quello della copertina di Nebraska, e guido per quattro ore con la netta sensazione che sto andando nella direzione sbagliata. Aria serena nello specchietto retrovisore, nuvole di temporale nel parabrezza. Google mi ha sconsigliato l’A1, che è tutta una coda per via delle alluvioni in Romagna, e da Milano mi ha spinto a Verona e poi giù per la Statale 434 detta Transpolesana, che attraversa il Polesine fino al grande fiume. Una strada incredibilmente tranquilla, oggi. Campi, cascine diroccate, trattorie per camionisti, pompe di benzina. Traffico rado e alberi verdissimi dopo la pioggia. Controllo il telefono: se da un momento all’altro annullano il concerto, faccio inversione e torno a casa. A Bovolone, nel bel mezzo di queste badlands fradicie, mi fermo a bere un caffè. La barista gentile mi fa: “Lo vuole liscio?”. È un invito a scacciare le mie paure entrando nello spirito del luogo. Resisto alla correzione e lo prendo liscio, ma solo perché sto calcolando i tempi e mi pare presto per cominciare.
Poi mentre attraverso il Po, gonfio d’acqua fino all’argine, il cielo si dirada e su Ferrara spunta perfino il sole. Me l’aspettavo affollata, la trovo invece silenziosa. Sembra un’isola, di quelle che piacciono al mio amico. Ho il suo indirizzo, parcheggio l’auto e cammino per questa città che conosco più che altro per le sue canzoni, oltre che per Bassani. Qualche studente, qualche turista, nessuno che va di fretta (i milanesi sono a disagio nelle città dove non si va di fretta, inciampano nei passanti, cercano di superare). Entro nel vicolo, trovo il portone, guardo in su, lui si affaccia alla finestra: Eccoti, sali!
Oggi il mio compagno d’avventure è Vasco Brondi, siamo amici da qualche anno. Ci siamo incontrati a un festival proprio qui a Ferrara e abbiamo scoperto che io lo ascolto fin dal primo album, lui mi legge fin dal primo libro, e abbiamo una serie di amori in comune che partono dalla Beat Generation e arrivano fino al Tibet, passando per le ragazze complicate. Infatti, casa sua sembra la cella di un monaco tibetano. O meglio, di un vagabondo del Dharma.
Vasco vive in parte in tour, in parte su un’isola lontana, in parte a Milano e in parte qui, dove torna quando vuole star tranquillo. Dorme per terra su un materasso sottile e stanotte dormirò per terra anch’io, in una stanza i cui arredi sono solo chitarre, libri, piccoli Budda e vecchi poster di concerti, i primissimi delle Luci della Centrale Elettrica. Sarà questa casa, sarà che ho il telefono a terra e tra un po’ muore, ma mi viene da dire: Sai cosa faccio, Vasco? Lo metto in carica e lo lascio qui. Questa serata me la vivo senza telefono.
Usciamo. È bello andarsene in giro per una città con uno che ci è nato e cresciuto, che passeggiando ti dice: Quello è il mio liceo, Quella è la casa dell’Ariosto, Entriamo lì a prendere da mangiare che hanno delle buone pizzette. Seguire Vasco è una scuola di calma per me, io che nella vita ho sempre il fiato sul collo sarei già ai cancelli, invece lui andando verso il parco vuole proprio mostrarmi la bocciofila del suo cuore. Mi fa vedere le piste e i trofei. La foto di un suo compagno di classe che a scuola era uno sfigato ma poi è diventato campione europeo di bocce. Pure io, dice Vasco, ho cominciato a suonare perché al liceo c’era una sala della musica, la potevamo usare gratis, e ho scelto il basso perché aveva solo quattro corde, mi pareva più facile. Be’, ne ha sfornati di talenti quel posto, dico io, guardando la foto del campione di bocce che sorride con la sua coppa dorata. Ci sediamo ai tavolini fuori tra gli habitué, navigati ferraresi che sembrano ignorare quello che sta per succedere, facciamo come loro e ordiniamo due birre, mangiamo una pizzetta.
Poi mentre siamo lì ecco che parte: BRAAAM!, fa la chitarra elettrica, e si alza il grido della folla. Non dobbiamo andare?, dico io. Tranquillo, fa Vasco, con l’aria di chi la sa lunga. Sentiamo le prime due o tre canzoni da qui, insieme ai giocatori di bocce, finiamo le birre e paghiamo. Poi sempre al passo di Vasco – quello di uno che attraversa il mondo così – entriamo nel parco, mostriamo il biglietto, superiamo cancelli dove non c’è più nessuno, attraversiamo una distesa di fango e paglia che sembra calpestata da una mandria di bisonti, passiamo anche i baracchini deserti delle magliette e dei panini. Cinque minuti prima eravamo in bocciofila, cinque minuti dopo siamo sotto il palco al concerto di Bruce Springsteen, tra 50.000 persone. Questa benemerita rivista ci ha procurato i biglietti per il settore A, quello degli scalmanati che sono in fila da stamattina e gridano schiacciati alle transenne. Noi più modestamente ci piazziamo vicino al bar e ordiniamo un’altra birra.
Comincio a vivere quest’esperienza strana, nel senso che è molto emozionante per me – ascolto Bruce da trent’anni e so tante canzoni a memoria – ma è difficile capire che emozione sia. Mentre la musica mi attraversa, mi accorgo che per la maggior parte del tempo penso proprio a questo: che cos’è che sto vivendo, esattamente? A pochi metri c’è Bruce Springsteen, 74 anni, che suona e canta, in uno degli ultimi concerti che inevitabilmente potrà fare nella vita. C’è la storia del rock, c’è la letteratura americana, ci sono gli anni ’70 e ’80 e ’90, con tutto quello che queste cose significano per Vasco e me. A cinquanta chilometri, l’alluvione. Ci sono andato una volta, da volontario, in un’alluvione. Ho spalato fango e sono entrato nelle case di persone disperate che cercavano di salvare almeno le fotografie, ho visto com’è. So che da fuori sembra che le due cose non possano stare insieme, o concerto o alluvione, ma scopro che invece da dentro la sensazione è diversa: per qualche motivo sento che si parlano una con l’altra. Che cosa si dicono? È anche questo che sto cercando di capire.
Bruce (non lo voglio chiamare il Boss, sia perché sono anarchico sia perché quel nome non piace nemmeno a lui) ha questo mistero: non è patetico. A 74 anni si muove, picchia sulla chitarra, grida nel microfono, arringa la folla e i suoi musicisti, eppure non sembra un vecchio che vuol fare il giovane. È in gran forma, ma i suoi anni se li porta. Mi ricorda Clint Eastwood e il racconto della vecchiaia che ci ha fatto negli ultimi film, dagli Spietati in poi. Poi mi accorgo di un’altra cosa e la dico a Vasco: Hai visto che quasi nessuno ha tirato fuori il telefono? È vero!, mi fa lui. È stranissima questa cosa perché ai concerti, dice, specie quando suona con gente più giovane, ormai suona davanti a una selva di telefoni, non di volti. Stasera in parte incide l’età media, ma in parte è altro. Che cos’è? Perché a nessuno frega nulla di fare le foto e i video?
Poi cala il buio, saranno le nove passate. È bellissimo nei grandi concerti il momento in cui cala il buio, non sono certo il primo a notarlo. Non vedi più il pubblico, non guardi più le facce intorno a te, l’attenzione è tutta focalizzata sul palco, e la notte, si sa, è fatta per gli amanti. Infatti appena la notte scende Bruce ci fa una sorpresa: Because the Night, dove gli amanti siamo noi e lui. Sentiamo che il concerto vero comincia adesso. E infatti c’è solo un momento in cui Bruce smette di suonare e parla, resterà l’unico. Arriva qui: dopo Because the Night mette via la chitarra elettrica, imbraccia l’acustica, si avvicina al microfono e ci racconta una storia sul suo vecchio amico George, che una volta usciva con sua sorella. Bruce aveva sedici anni, stava imparando a suonare la chitarra proprio come Vasco al liceo, e George aveva una band tutta sua, i Castiles. Grazie all’intercessione della sorella, George gli propone di suonare con loro e così Bruce diventa il chitarrista dei Castiles tra i sedici e i diciannove anni. Salto in avanti di altri cinquanta: ora George è sul letto di morte e Bruce va a dirgli addio. Gli accarezza la mano. Ciao amico, fai buon viaggio. Poco dopo George muore e Bruce si rende conto di una cosa: è l’ultimo della band a essere rimasto in vita. Last Man Standing è la canzone che sta introducendo, ma prima di cantarla dice ancora un’altra cosa, una cosa che non dimenticherò mai.
Dice: Io la sento arrivare, la morte, come un uomo che sta in piedi su un binario buio, e sta per essere investito da un treno in corsa. Lo sento che arriva, sento il rumore che fa, la terra che trema sotto i piedi, i fari che ingrandiscono. E sapete cosa succede? Più quel treno si avvicina, più è tutto illuminato. Vivete adesso, vivete adesso, vivete adesso.
Poi canta e fino alla fine non parla più. Fino a quando non dirà Ciao Ferrara, ciao Italia, ciao Italia, vi voglio bene.
Da qui in poi, seguo il resto del concerto in uno stato di forte commozione. Capisco anche quella cosa dell’alluvione, e di come lui stia comunicando con lei. Questa non è una festa. Questa è una cerimonia. Penso che Bruce ha 74 anni, Vasco ne ha 39, e sto assistendo a due momenti della vita di un uomo. Clarence Clemons detto Big Man è morto da tempo e ora c’è suo nipote Jake a soffiare nel sassofono al posto suo. Come Bruce è andato a salutare il suo amico George, forse noi qui stiamo salutando lui. È una cerimonia di vita e di morte questo concerto, e quel che celebra è il nostro rapidissimo passaggio sulla terra, la nostra esperienza di esseri umani, il nostro qui e ora.
Il resto del concerto non lo racconto: se volete sapere com’è, ci sono altre 17 date (ho controllato sulla schiena della felpa che mi sono comprato quella sera). Alla fine usciamo, Vasco e io, leggeri come siamo entrati, perché il mio amico ha questo potere, riesce a fluttuare anche in mezzo a una folla di 50.000 persone che sciama via da un concerto. Vieni, passiamo di qua, due vicoletti della sua adolescenza e siamo di nuovo soli per strada, alle undici di sera che il giovedì a Ferrara sembrano le tre di notte a Milano. Andiamo a fare chiusura al bar dei suoi fratelli, un luogo mitico per i fan di Vasco, quale io mi vanto di essere: tutti sappiamo che a vent’anni, mentre Bruce suonava nei Castiles, Vasco scriveva canzoni e sbarcava il lunario lavorando al Korova Milk Bar, un mestiere per cui non era affatto portato. Ci voleva organizzare i reading di poesie, lui. I clienti aspettavano che si voltasse per chiedere il cocktail a uno dei suoi fratelli. Quando poi ha esordito con Canzoni da spiaggia deturpata, un bevitore storico gli ha detto: “Sono contento che hai trovato la tua strada”.
E sono ancora lì, fissi al banco, gli alcolizzati, i Kerouac e i Bukowski e i Carver di Ferrara, e ci sediamo volentieri insieme a loro, noi ancora misticheggianti grazie a quel gran sacerdote di Bruce, loro con la levità, la santità, la beata indifferenza al mondo di chi sta bene esattamente lì dov’è, su uno sgabello davanti al bancone. Non so imitare l’accento del New Jersey, con quello emiliano viene più o meno così:
“Mo l’han poi fatto, ’sto concerto di Springsteen?”
“L’han fatto, sì”, dice Vasco, dice Bruce, dice il ragazzo che sta imparando a suonare, dice il vecchio che sta per essere investito dal treno in corsa, e in quel momento intorno a lui è tutto illuminato.