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Vasco Brondi e le ‘Costellazioni’ viste da un balcone tra Loreto e Lambrate

Ieri sera all’Alcatraz di Milano il cantautore ha rifatto il terzo album delle Luci della Centrale Elettrica. Non un’autocelebrazione, niente feat da strillare, solo l’essenziale, che a volte basta. Il report del concerto

Foto: Astrid Ardenti

«Avevo sottovalutato che preparare un concerto così è come preparare un tour intero», dice a un certo punto Vasco Brondi. «E qualche settimana fa mi sono detto: chi me l’ha fatto fare? Ora lo so». Un solo concerto per i dieci anni di Costellazioni, il terzo album de Le Luci della Centrale Elettrica, «l’inizio della fine della mia gioventù», come l’ha descritto presentando il live nei mesi scorsi. «Un disco che ha portato per me un grande cambiamento. Dopo i primi due album in cui avevo trovato una voce e quattro anni di silenzio, ero tornato da un viaggio solitario lungo sei mesi e mi sono rimesso a scrivere».

Ne è uscito un disco «provinciale e spaziale», risuonato per intero ieri sera all’Alcatraz assieme a una band di sette elementi. Milano, non a caso, «la città dove l’ho scritto in un appartamentino di Lambrate prima di ri-trasferirmi a Bologna e ri-ri-trasferirmi a Ferrara». La città che Montale ha definito «un enorme conglomerato di eremiti». Una definizione che Brondi ha citato raccontando proprio di quando metteva giù i pezzi di Costellazioni «su un microscopico balcone tra Loreto e Lambrate». E non a caso all’Alcatraz, dove dieci anni fa Le Luci della Centrale Elettrica avevano una data prenotata dopo l’uscita del disco e pensavano che la sala sarebbe stata allestita nella versione ridotta, come accade a quelli che non vendono molti biglietti. E invece suonarono nella versione ampia del locale, riempito anche ieri fino al tutto esaurito.

Chi c’era lo sa, chi non c’era non deve pensare a un concerto autocelebrativo. Niente ospiti di grido, per esempio. Niente Jovanotti, che domenica sera era a Milano per Che tempo che fa, e quindi hai visto mai. O Cosmo, che ha appena pubblicato una sua rilettura di I destini generali. Sul palco solo la versione più esperta del ragazzo che, dopo la copertina di Blow Up ottenuta con il suo album d’esordio, nei suoi concerti amava ripetere cose come «non preoccupatevi che tanto adesso l’hype finisce». L’aver deciso di dedicare a Costellazioni l’ultimo concerto di un anno impegnativo, annunciando altresì un break che durerà per tutto il 2025, fa ovviamente pensare che quell’album sia stato importante. Eccolo allora eseguito nella prima parte del concerto, in versioni che verrebbe quasi da definire concise. Quasi sempre senza code strumentali, come se si fosse scelto di limitarsi all’essenziale.

Ed essenziale è anche l’aggettivo adatto a descrivere la band, all’altezza del compito affidatole e senza strumenti in evidenza, nemmeno la chitarra di Federico Dragogna dei Ministri, che di Costellazioni fu produttore. Tanto che riesce difficile, a poche ore dal concerto, ricordare momenti eclatanti durante l’esecuzione dei pezzi del disco, che sono invece scorsi in un unico omogeneo flusso che ha avvolto il pubblico, pur nelle ovvie differenze tra un brano e l’altro. Intervallati, questi ultimi, da poche parole che Brondi sa usare bene, raccontando piccole storie, sfoggiando un’autoironia che fa da sempre parte del suo carattere amabile, solo apparentemente in contrasto con testi a volte aspri. Parla della «provincia forza magnetica e respingente che ci fa andare avanti e indietro sempre tornando all’ovile». A Ferrara, «nello studiolo del mio appartamento Fede beveva mate, fumava erba medica e faceva dei microsonni come quelli che dicono facesse Einstein». A Bologna invece, dove si era spostato per fare lo studente fuori sede, fuori corso e forse fuori tempo massimo, era finito a stare in un monolocale a pochi passi da casa di Lucio Dalla. Lo vedeva al bar, seduto a un tavolino in prima fila quasi volesse essere «impezzato» dai passanti, che questi gli attaccassero bottone. «E l’unico che non lo impezzava ero io, che passavo a testa bassa con timore reverenziale».

Le ragazze stanno bene, dice, è una delle canzoni a cui è più affezionato, mentre I destini generali prende il suo titolo da un libro di poesie di Franco Fortini recuperato su una bancarella a Bologna. Piccoli flash, buttati lì da un amico poco loquace, forse un po’ timido, sicuramente non noioso. Tanto che la prima parte del concerto (lui la chiama primo tempo) se ne vola via in un’ora scarsa. Anche perché, dieci anni dopo, Costellazioni non ha perso nulla del suo fascino, e di autori che scrivono come Brondi non è che ne siano arrivati molti, nel frattempo.

Foto: Astrid Ardenti

Nella seconda parte del concerto trovano spazio pezzi di una storia ormai ultraquindicennale. Come 3000 metri, canzone per il documentario Fiore mio di Paolo Cognetti, da poco passato nelle sale. «De André, trasferitosi in Sardegna, diceva che in un mondo ossessionato dal tempo si tiene in scarsa considerazione il concetto di spazio. La montagna ci mette in prospettiva: piccoli, fragili e fortuitamente vivi». O una scarna versione di Piromani, come nell’album d’esordio, la canzone che ha dato il nome a tutto con la sua citazione delle luci del polo industriale Edison di Ferrara, eseguita con il violino di Rodrigo D’Erasmo. «C’era anche lui tra gli amici della Multipla» dice a proposito dei ragazzi da lui frequentati da ventenne. Un segno di vita, «dedicata a quello che sta succedendo in Palestina, o che è già successo» rappresenta invece il Vasco Brondi più recente assieme a un singolone come Incendio. Si chiude con Nel profondo Veneto, con la band che al termine si abbraccia sul palco mentre parte il nastro di Come è profondo il mare di Dalla.

«Stiamo preparando il concerto, sarà bellissimo» aveva scritto Brondi nelle scorse settimane. Non si può dire che non sia stato di parola.

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