I musicisti lasciano il palco muovendosi al rallentatore, come astronauti in assenza di gravità, come lumache, come uomini che si chiamano fuori dal tempo dell’utile e del lavoro. Finisce così il concerto di Vinicio Capossela, con un’uscita di scena al ralenti che è un invito giocoso a non prestare ascolto agli imperativi di efficienza e velocità. Dietro al bestiario messo in scena dal cantante ieri sera agli Arcimboldi di Milano, e fino metà dicembre in giro per l’Italia, c’è una riflessione sulla realtà in cui viviamo, sulla peste che si diffonde via wi-fi e c’infetta tutti, sulla necessità di sovvertire le regole della contemporaneità.
Quello di Ballate per uomini e bestie è un concerto lungo e generoso, pieno di musica – viviamo in un’epoca in cui tocca spiegare che ci sono ancora concerti con tanta musica, bella e significativa e abbondante. Il cantante indossa una maschera dietro l’altra, non solo metaforicamente. Sono tutti animali: orso, pinguino, lupo, maiale, lumaca. Sfida il tabù della morte, ci ricorda che «oggi a me, domani a te» per poi iniziare una danza orgiastica con uno scheletro. Ci ricorda che in tempi di peste – quelli cui viviamo, non solo il Seicento – la pietà è pericolosa. Evoca la sensazione che si stia arrivando alla tragica fine di qualcosa.
Un’ora prima di salire sul palco, Vinicio Capossela è seduto con Rolling Stone nelle prime file della platea degli Arcimboldi. Alle sue spalle c’è la sala vuota. «Forse non lo dovrei dire, ma preferivo lo Smeraldo. Uscivi ed eri per strada. Qui sembra di essere a Malpensa». Di fronte ha la scenografia del concerto, semplice, ma efficace. Sono quattro guglie in legno e tre grandi pannelli riaperti di iuta, schermi materici su cui verranno proiettate con la tecnica del video mapping le immagini a corredo delle canzoni. La struttura diventa all’occorrenza cattedrale, caverna, prigione. «Questo concerto», spiega Capossela, «è un’allegoria della contemporaneità. Se ai tempi di Ovunque proteggi evocavo il mito per parlare dell’uomo, la fase storica che stiamo vivendo richiede l’evocazione di un sentire apocalittico, della diffusione di fake news che richiama altri tempi, altre epidemie».
E insomma, viviamo un nuovo Medioevo, dice Capossela durante il concerto saltellando da una parte all’altra del palco e sedendo spesso al pianoforte. La performance è ambientata in un tempo fuori dal tempo dove tutto può accadere. Si parte dai suoni cupi e percussivi, con la batteria che s’arricchisce di sonagli e campanacci, e grandi staccati che evocano gesti primitivi, come pietre percosse l’una contro l’altra. Si procede speditamente verso un sound più moderno, a tratti intensamente elettrico come nella versione folle di Nuove tentazioni di Sant’Antonio, «sano punk contadino emiliano». Ci sono richiami al folk, alla musica antica, al rock. È tutto un gran miscuglio fatto apposta per suscitare stupore.
Vinicio Capossela è il più grande fantasista del pop italiano. E rappresenta un caso piuttosto raro di musicista che pensa i concerti come spettacoli concettuali, un tour diverso dall’altro. Cambiano i repertori, gli arrangiamenti, i significati. Cambia anche la band che l’accompagna. Per Ballate per uomini e bestie ha assemblato una cricca di musicisti diversissimi fra loro che va dal chitarrista Alessandro “Asso” Stefana, col suo stile che affonda nelle radici americane (e non solo), passa per il batterista e produttore Niccolò Fornabaio e il contrabbassista Andrea La Macchia, arriva a due strumentisti decisivi per mettere in musica l’allegoria di cui parla Capossela. Sono il violinista Raffaele Tiseo, che viene dalla musica colta, e Giovannangelo De Gennaro, specializzato in musica medievale, a viella e aulofoni.
È una formazione originalissima, dove s’incontrano antico e moderno, ha un suono inusuale e grandi mezzi espressivi. Tutti gli strumentisti hanno tutti un gran gusto e sanno suonare in modo furioso, ma anche dare brevi e decisive pennellate sonore, come nella Ballata del carcere di Reading. «Ci sono strumenti antichi e c’è la tecnologia che ci permette di suonare dei campionamenti che vengono dal disco», spiega Capossela. «È tutto suonato, ma alcune cose le attingiamo dal già-suonato. Siamo diventati come ruminanti che possono masticare e rimasticare la musica».
Nell’arco di due ore e mezza, con un repertorio basato per lo più su Ballate per uomini e bestie e Canzoni a manovella, e recuperi dal vecchio repertorio fuori dalla logica del greatest hits, l’incanto s’accompagna alla cagnara, la denuncia al divertimento. Anche quando canta di cose drammatiche, Vinicio Capossela non perde quell’aria da canaglia e sai che dopo una storia disperata arriverà una polka ad eccitare il pubblico, sai che dopo il folk di Il povero Cristo, sulla crociata moderna non contro la povertà ma contro i poveri, ci sarà una versione istericamente festosa di L’uomo vivo. Sai che la gente s’alzerà in piedi, porterà le mani sopra la testa, come nella traballante processione descritta nel testo. E del resto, come dice Capossela, la barbarie è sì paurosa, ma anche liberatoria.
Scaletta:
Uro
Danza macabra
La peste
Le loup garou
Nuove tentazioni di Sant’Antonio
Il testamento del porco
Ballata del carcere di Reading
La belle dame sans merci
Con una rosa
La giraffa di Imola
I musicanti di Brema
Marajà
Pryntyl
Le Pleiadi
Di città in città (… e porta l’orso)
Suona Rosamunda
Polka di Warsawa
Il povero cristo
L’uomo vivo
Al colosseo
Resto qua
Le case
Una giornata perfetta
Ovunque proteggi
La lumaca