Chissà chi m’aspettavo di vedere, forse un fantasma o una madonnina dolente o una santa redentrice. È vero che Weyes Blood sale sul palco con indosso un abito lungo sotto al quale durante Twin Flame s’illumina il suo cuore infranto e fluo. Ha effettivamente qualcosa della mistica pop, ma è fanciullesco il modo in cui fa svolazzare il mantello e balla e saltella sul palco. È venuta a cantare con grazia e compassione della miseria e del caos delle nostre vite, eppure sembra voler sdrammatizzare quel che fa. Ha 35 anni, ma per come si muove potrebbe averne 25 e per lo stile canoro melodico e rétro potrebbe averne 80. È una delle migliori in circolazione.
Accompagnata all’Alcatraz di Milano da quattro musicisti, Weyes Blood ha una sua eleganza, una sua classicità, ma anche il fare dell’intrattenitrice cresciuta nei club alternativi. E ha qualcosa di tenero, forse anche di buffo. Ha talento, e questo lo sapevamo già, sa come si canta e come si costruisce un pezzo. È tutta cuore e sentimenti e grandi salti lungo il pentagramma. A tratti l’interpretazione e il suono sono talmente giusti da dare l’impressione che la musica venga da un disco. Poi arriva qualche sbavatura, e meno male. È misurata, ma non rigida, è romantica, ma non lamentosa. «Fumiamo molta erba», dice della sua band, per poi correggersi: «Solo io, in effetti».
L’estetica, che va dai suoni di chitarra slide ai saliscendi melodici, dall’abito ai candelabri sul palco, è vintage. E però Weyes Blood non feticizza il passato. Usa la forma-canzone classica, per la quale a differenza di molti coetanei ha una forte vocazione, per raccontare il presente. La sua è una forma di romanticismo che al cinismo oppone una sorta di realismo fatato e trippy. Allo stesso tempo, sembra mantenere una certa distanza dal suo repertorio. Ogni tanto chiacchiera col pubblico come accade nei piccoli locali dove l’imperativo non è far spettacolo a tutti i costi per la necessità di colpire anche il decimillesimo spettatore. Parla, ma poi si ferma: «Ok, torniamo alle canzoni tristi».
Di canzoni tristi ne ha da vendere. A Milano ne ha fatte 14, con un paio di cambiamenti rispetto alla scaletta che sta portando in giro per l’Europa, forse perché questa è la data numero 100 dell’In Holy Flux Tour nel 2023. Ricorda quand’è venuta in Italia con Father John Misty, prende pezzi soprattutto da Titanic Rising, che è ancora il suo disco migliore, e dal più recente And in the Darkness, Hearts Aglow, quando fa quelli vecchi li introduce come se appartenessero a un’altra vita. E quando in Children of the Empire canta che non c’è più tempo per la paura incassa un applauso a scena aperta e forse questo è uno dei temi del concerto, la musica come creazione d’un luogo comunitario, come reazione a un mondo in cui siamo tutti disconnessi.
Alle sue spalle vengono proiettate delle immagini che fanno atmosfera. Diventano importanti durante la «little tune» God Turn Me Into a Flower, che tanto little non è. Sono di Adam Curtis. Si gira anche lei a guardarle, sono scene di gioia e dolore e abbinate a questa musica dell’altro mondo sembrano fermare il tempo. Prima di Something to Believe ci informa della sua crociata per porre fine «alle stronzate dell’astrologia» (sono con te, sorella). Qualcuno dal pubblico le chiede di che segno è. Lei risponde che «sono nata Gemelli, ma ora sono Scorpione, voglio essere fregata due volte».
Nel finale volteggia e fa ampi giri sul palco mentre alle sue spalle passa un montaggio veloce di film d’ogni tipo, blockbuster e d’autore, americani e italiani, d’amore e fantasy, manco fossimo in quella folle sequenza di Babylon. “I wanna be in my own movie”, canta lei. Vai ai concerti di certe altre cantautrici e ti sembra di stare in una rom-com di serie B, vai da Weyes Blood e finisci nella scena madre d’un filmone ambientato nel 2023, ma col carattere di quelli di sessant’anni fa. Concede solo due bis e chiude a sorpresa non con la consueta Picture Me Better, ma con In the Beginning, «una richiesta speciale». Dopo 85 minuti manda tutti a casa. Sono le 22.15, non pare neanche d’essere in Italia.
Rispetto ai dischi, bellissimi, dal vivo la resa della musica è più leggera, meno drammatica anche se la signora al mio fianco piange come una bambina. Sono canzoni frutto di anni di incertezza, esprimono il bisogno d’essere salvati da qualcosa, di essere redenti da una qualche grazia, forse dalla bellezza di questa musica che parla del nostro tempo sottraendosi alla sua volgarità. È catarsi senza drammi, ma anzi con un pizzico d’autoironia.
“Datemi qualcosa che possa vedere, qualcosa di più grande e più forte delle voci che sento dentro di me, qualcosa in cui credere”, canta Weyes Blood. Quel qualcosa può essere la musica. E del resto Natalie Mering ha preso il nome d’arte da Wise Blood, titolo originale del romanzo di Flannery O’Connor La saggezza nel sangue. Il protagonista Hazel Moss immagina una Chiesa Senza Cristo. Con un bel po’ di fantasia e aggiungendoci della sana disillusione, è anche una buona definizione di cos’è un concerto di Weyes Blood, una chiesa gotica senza dogmi con l’erba al posto dell’incenso e come officiante una mistica buffa e piena di talento.
It’s Not Just Me, It’s Everybody
Children of the Empire
Diary
God Turn Me Into a Flower
Andromeda
Grapevine
Seven Words
Something to Believe
Everyday
Twin Flame
Hearts Aglow
Movies
A Lot’s Gonna Change
In the Beginning